Elementi della natura e origine della conoscenza

Riccardo Panigada

La cultura non può che essere nata inconsapevolmente e unicamente dall’amore. Asserto, il quale, contrariamente a quanti desiderassero trarne affrettate considerazioni moralistiche (che sarebbero totalmente fuori luogo poiché ante litteram) l’amore viene inteso appunto nella sua accezione più originaria, ovvero primordiale, ovvero elementare: quella biologica. Si procrea per far sopravvivere la specie, e si conosce per sopravvivere, e trasmettere gli elementi della sopravvivenza.

Anche da parte dell’indagine operata seconodo i canoni delle scienze biologiche, si desidera quindi confermare la tesi dell’epistemologo Manuel Cruz (il quale, nel suo saggio “L’amore filosofo”, ha recentemente osservato che il processo di conoscenza debba nascere dall’amore ancor prima che dalla meraviglia, come finora ipotizzato dalle scienze del pensiero filosofico), osservando che la meraviglia per la nascita della prole, e l’interesse verso di essa finalizzato a studiarla per meglio accudirla, insorgono successivamente all’atto d’amore che l’ha generata, e all’affezione derivante dalla natura satellitare che strettamente collega la progenie ai corpi della madre (in primis) e del padre (corpi, verso i quali, ciascuno dei due genitori rivolge l’ovvia cura che ciascuno ha di sé, finché non venga da loro istintivamente riconosiuta la maggior rilevanza dell’integrità della prole).

Testa di carattere - Franz Xaver Messerschmidt (XVIII° sec.)

Testa di carattere – Franz Xaver Messerschmidt (XVIII° sec.)

Ma il cervello umano è complesso, e le facoltà di modellizzazione astratta, e, conseguentemente, di raziocinio, consentono spesso di costruire teoremi e sistemi, i quali possono far dimenticare all’uomo le proprie origini naturali, e gli stessi processi costitutivi. Si finisce così con lo svolgerle in modo tanto automatico quanto inconsapevole, fino a trascurare affatto la valenza della propria genesi ed esistenza naturale e corporea.

Così, nel XVIII secolo, come nell’editoriale di questo numero rileva Marinacci, la mente umana sembra essere arrivata a fluttuare, almeno per quanto riguarda le due contrapposte correnti filosofiche, artistiche e letterarie, in una sorta di etere, che consente ogni tipo di ebbrezza: quella dell’ipostatizzazione razionalistica, e quella che darà luogo alle folli passioni romantiche. Due “follie culturali”entambe capaci di portare alla deriva rispetto alla natura.

Forse l’unico contemporaneo in quell’epoca in grado di leggere questa situazione alquanto anomala, Emanuele Kant, tenterà di riportare tutti coi piedi per terra, senza trascurare i vantaggi, comunque ereditati dalle speculazioni intellettuali del tempo, e delle epoche immediatamente precedenti. Ma, in tema, per il presente articolo, ci sono già i due poli rappresentati dal razionalismo e dal romanticismo da trattare, e il loro peso non consente certo spazio alla contemporanea trattazione di altri epocali argomenti filosofici.

Si parta dunque dal principio, per vedere se è pervio il cammino che conduce a capire di che pasta siano fatti gli uomini, perché di questo, alla fine dei conti sempre si tratta.

Atelettasiaci: mai dilatati in un respiro. Il feto viene col parto immerso in un “esterno” coi polmoni in queste condizioni, e, neonato, piange, per far penetrare al più presto l’esterno dentro di sé. Così si viene “al mondo” provvisti del drammatico istinto alla sopravvivenza, per cui bisogna iniziare a compiere azioni, la prima delle quali è quella di respirare. La drammaticità degli istinti (dal greco δρᾶμα, -ατος che significa azione, ma anche dovere, dramma) è dunque inclusa nel patrimonio genetico, che determina, oltre alle azioni istintive, le caratteristiche somatiche e la loro progressiva trasformazione; la tendenza ad alcuni atteggiamenti piuttosto che ad altri; la probabilità di ammalarsi; in buona parte la durata della vita; e… la predisposizione al riconoscimento di simboli e archetipi?

Durante tutta la vita verranno scambiati gas tra esterno e interno al corpo umano mediamente 16 volte al minuto con gli atti respiratori. Ma è dal concepimento, che l’”interno” (dapprima a sua volta interno alla madre) riceve materiali ed energia sottoforma di onde elettromagnetiche, acustiche, pressorie, nutrienti e segnali chimici; energia e materiali che verranno diversamente immagazzinati trasformati, emessi.

Durante le “normali” attività quotidiane tutto avviene in un fluire di energia e materia ben poco consapevole, mentre, di una cosa si è convinti senza riserve (indipendentemente dal fatto di percepire più o meno chiaramente una propria identità): il fatto di “esserci”. La percezione della presenza individuale di sé è chiara, quanto impossibile è individuare il sé in senso fisico, materialmente, internamente o, tantomeno, esternamente. Non si è, quindi, abitualmente costantemente “coscienti” di ciò che c’è, e che è individuabile e riconoscibile (la respirazione e il transito degli elementi i in essa implicato), quanto lo si è di ciò che “non c’è”, o che comunque non si può ordinariamente percepire coi sensi, individuare in qualche luogo mediante coordinate spaziali: il sé.

Si potrebbe osservare, che, con l’abitudine, ovvero, col percepire continuamente la ricorrenza meccanica del respiro la mente trascurerà a lungo andare tale fenomeno ripetitivo in quanto privo di nuova informazione, mentre lascia sempre emergere l’unica vera informazione importante che da tale fenomeno deriva: quella di essere al mondo. Peccato che, dovendo usare la parola “mente” si sia fatto ricorso a un “oggetto” (quello indicato dal significato del termine) che non è possibile indicare in modo ostensivo. Il percorso esplicativo ricade allora nell’asserzione “esse est percipi” di Berkeley, per poi trovarsi di fronte la tautologia cartesiana, dove mente/pensiero si equivalgono all’esserci. Tautologia, che, in quanto tale, è notoriamente ben lungi dall’esaurire il problema del dualismo soma-psiche, che, appunto, è ancora aperto.

Ma, ciò che conta, è che, l’agire, dopo la nascita, dovendosi esprimere in un contesto spaziale tenuto sotto controllo dai sensi, determina naturalmente la percezione soggettiva come distinta dal contesto esterno sul quale il soggetto esercita le proprie azioni. Per cui tale percezione soggettiva, probabilmente per il fatto di trovarsi in antitesi al contesto esterno sul quale agisce, viene generalmente intuita come “interna” al soggetto.

In tal caso, è a partire dalla percezione soggettiva in rapporto a quella del contesto esterno che si genera la facoltà di astrazione più elementare, la quale è alla base del concetto di “cultura”. I primi strumenti utili a tali capacità di astrazione e analisi sviluppate mirabilmente dai presocratici, sono comparsi quindi molto prima che la mente abbia potuto raggiungere la facoltà di riflettere sulle origini del mondo esterno, e su se stessa. Alcuni testi di storia della filosofia menzionano appena la sensibilità artistica, e le abilità pratiche degli uomini primitivi. Ma la facoltà di produzione simbolica secondo Laura Ottonello (una sensibile psicanalista junghiana, la quale sostiene che la funzione simbolica è entrata a far parte integrante del corredo genetico umano), potrebbe emergere, quasi per esclusione, in epoca preistorica, da ”tutto ciò che non rientrando, nell’ambito del concretismo e dell’immediatezza costituisce spazio mentale e crea le premesse al simbolismo. La funzione simbolica nasce nei riti funebri che già l’uomo primitivo praticava. (…) L’uomo preistorico si è “sollevato”, anche fisicamente, mettendosi in piedi; ha potuto pensare e volgere lo sguardo verso l’alto, nonostante una realtà quotidiana tanto dura e concreta, solo attraverso il simbolo” (cfr.: www.geagea.com).

Ma, forse, anche a dispetto di alcune teorie neurofisiologiche, secondo le quali le capacità culturali della trasmissione della conoscenza tra generazioni sono prerogativa del cervello umano, grazie al maggior sviluppo telencefalico rispetto a quello degli altri primati, bisogna andare ancora più indietro nel tempo: perfino le grandi scimmie dalle quali discende l’uomo hanno dimostrato la capacità di tramandare la conoscenza. Negli orangutan, per esempio, sembra che la capacità di “agire culturalmente” sia dettata dalla lunga aspettativa di vita, e dalla necessità di essere in grado di adattarsi alle mutevoli condizioni ambientali, come dimostrerebbe un recente studio dell’antropologo Michael Krützen dell’Università di Zurigo: “ora sappiamo che le radici della cultura umana vanno molto più in profondità di quanto si pensasse: essa è costruita su una solida base, vecchia di molti milioni di anni e condivisa con le grandi scimmie. Gli oragutan non solo dimostrano infatti la capacità di apprendimento sociale, ma anche che le innovazioni comportamentali vengono trasmesse culturalmente da una generazione all’altra per un gran numero di generazioni, e con un successo che si è dimostrato indipendente da fattori genetici e da influenze ambientali”. (cfr. “Le Scienze”, ottobre ’11).

Lo studio di Krützen estende quindi il legittimo riferimento della parola cultura al patrimonio delle capacità mentali-comportamentali del mondo animale.

Innegabilmente esiste tuttavia anche un’altra possibilità di porsi rispetto al mondo “esterno” rispetto a quella drammatica della necessità operativa: ovvero quella di sentirsi in armonia con esso, come se corpo fisico soggettivo e ambiente fossero un “tuttuno” della natura.

Questa alternativa, caratteristica soprattutto delle culture orientali, apparirebbe possibile solo in condizioni ideali, in cui le esigenze primarie di sopravvivenza siano garantite. Si tratta invece di una modalità secondo la quale si è riscontrata maggiormente vantaggiosa l’opzione di accogliere le dinamiche del mondo esterno, per quanto potessero rivelarsi difficili da accettare, cercando di conciliare con esse le proprie esigenze piuttosto che affrontarle di petto per contrastarle o modificarle a proprio vantaggio.

In questo caso lo spunto per la produzione culturale trova terreno maggiormente fertile nell’individuare univocità, più che corrispondenze, tra interno ed esterno (che peraltro non vengono intesi in senso contestuale, ma allargati alla sfera universale), fino a ripetere perfettamente nello schema corporale interno le caratteristiche di quello globale a cui appartiene, e col quale appunto si fonde fino a identificarvisi.

La posizione è diametralmente opposta a quella delle basi di partenza della cultura occidentale, in cui le facoltà sensoriali dirette hanno portato ad atteggiamenti speculativi basati sull’azione del dividere, discriminare (si veda il successo della parola “analisi” dal greco ἀναλύω=analizzare, risolvere, e del termine “critica” da κρίνω=separare, distinguere), per meglio catalogare, confrontare, eliminare ambiguità, creare o escludere rapporti più o meno possibili.

Due atteggiamenti opposti, che, rifacendosi al corpo, si potrebbero definire rispettivamente come “visivo” quello occidentale, operativo, inquieto, sempre alla ricerca di nuovi particolari, al fine di capire e controllare; e “uditivo”, quello orientale, rilassato, affidato a sensorialità intuitive, e costantemente alla ricerca di armonia, al fine di minimizzare l’imperfezione corporea umana, adeguandola il più possibile alla perfezione cosmica della natura.

Entrambi i presupposti culturali sono comunque resi possibili essendovi alla base il confronto tra interno ed esterno, anche se diversamente trattato.

Le neuroscienze oggi stanno indagando la materia biologica, pensando di potersi avvicinare alla comprensione della genesi del pensiero; e, dall’altro lato della montagna, filosofia e psicologia stanno scavando alla ricerca del medesimo tesoro epistemologico. Ma gli studiosi si trovano sullo stesso asse e avranno speranza di incontrarsi al nel cuore di quella montagna, dove si trova il Sacro Graal del pensiero, in modo da poterlo spiegare a tutto tondo, ognuno con le proprie competenze, o sono disallineati, e si incroceranno all’interno della montagna senza incontrarsi? e il Sacro Graal del pensiero esiste, o è una pia illusione, per cui bisogna invece oggi mettere insieme conoscenze che si hanno già in gran parte, e, con un interessante sincretismo, trovare una parallasse interpretativa nuova, possibile solo a patto di riuscire ad abbandonare pregiudizi e dogmi metodologici sempre in agguato a ingannare la mente dei ricercatori? tra interno ed esterno al corpo vi sono corrispondenze, isomorfismi fisici di cui bisogna scoprire la natura per trovare l’origine fisica del pensiero, oppure interno ed esterno sono la stessa cosa, come nel Tao, e per trovare la natura fisica comune a entrambi i membri del dualismo che siamo condannati a riscontrare nell’esistenza, si dovrà trovare la chiave per decrittare un alfabeto naturale misterioso?