La Pietà Rondanini

Nota critica Marco Marinacci - cameraman Michele Piovesan

(nostra esclusiva: unica documentazione magistrale della scultura nel contesto del suo originale allestimento progettato dallo studio BBPR all’interno del Castello Sforzesco di Milano, prima che l’opera michelangiolesca venisse ricollocata in altri spazi)

Testi della voce narrante:

1 La Pietà Rondanini, l’opera più d’avanguardia di Michelangelo, si pone al di fuori del tessuto storico della modernità, ma solo per collocarsi in una sfera di contemporaneità assoluta.

2 Il luogo d’elezione del suo messaggio non poteva che essere Milano, la città che ha visto nascere l’arte d’avanguardia italiana, e che dagli anni cinquanta ne è depositaria.

3 E lo è diventata grazie a un’architettura museale che è stata essa stessa, all’epoca, avanguardia e faro per tutta Europa, e, nella Sala degli Scarlioni del Castello Sforzesco, ha dato origine a un allestimento totalmente aderente alla volontà iconica dell’opera, frutto della sensibilità e del genio dei BBPR.

4 Il sommo scultore fiorentino, ormai ottantenne, si rese conto che per l’umanità il peso della vita terrena diventa insostenibile, e reggerne uno appena maggiore è già offerta estrema di passione.
5 Poco più grande della misura umana naturale, la Pietà nasce dal marmo in una prima redazione nel 1552, per essere ripensata dallo stesso Michelangelo solo tre anni più tardi, e sempre rimeditata fino a pochi giorni prima che la morte, in questo modo attesa, sopraggiungesse nel 1564.
6 Il maestro, lavorando al primo gruppo, che comprendeva la sola vergine Maria reggente il corpo del figlio, staccato da sé, si convinse che non ci possa essere “alcun concetto ch’un marmo solo in sé non circoscriva
col suo soverchio, e solo a quello arriva
la man che ubbidisce all’intelletto”.

7 Ma subito dopo, sente che la morte è il passaggio opposto al venire alla luce, e che il Figlio, appena rientra nelle tenebre della materia oscura, torna a essere accolto dal grembo della madre.

8 Ne restano escluse le gambe, e quel braccio, rotto a un’altezza poco sopra il gomito, frammento e simbolo dell’inesorabilità del tempo umano, che abita la prima versione, ancora legata alla vita terrena, e memoria del corpo mortale.

9 Poi, oltre la soglia mortale, appare la vita nuova, di cui è testimonianza la seconda versione: un moto s’infonde allora a tutta la materia, culminando nella delicata torsione del viso della Vergine, che può così volgersi verso il volto del Cristo, appena abbandonatosi sul magrissimo torso, per adattarsi nuovamente al corpo della Madre.

10 E nel momento stesso della rinnovata unione, anche Maria non deve più sorreggere il Figlio, poiché l’essenza divina non ha peso, e la sua stessa figura può ora levarsi aerea nello slancio verso l’alto. Lui, Michelangelo, l’inventore della muscolarità, si rende conto dell’illusorietà dell’esistere fisico, e all’ultima sua pietà delega il senso di liberazione dell’anima dal carcere terreno.

11 Le due diverse versioni del braccio di Cristo, rendono tutto il dramma del percorso creativo di Michelangelo: quell’idea perfetta che doveva ritrovarsi nella materia liberata dall’arte del levare, in realtà lascia il posto a una intuizione che ha natura terrena, legata al senso del disfacimento fisico, che il trapasso comporta. Il segno della frammentazione cellulare è espresso da ogni colpo di scalpello, che cade come una ghigliottina a scandire, sulla superficie del marmo, il passaggio tra la vita e la morte.

12 Tutto il dramma espressivo trattenuto in quel fosco pensiero “desti a me quest’anima divina e poi la imprigionasti in un corpo debole e fragile, com’è triste viverci dentro”, sembra riemergere in un solo momento, quando la testa di Gesù, con sforzo sovrumano, come già Minerva dalla testa di Zeus, prorompe possente dalla spalla della Vergine.

13 Poi il dramma si fa sottile, profondo, per entrare concentrato tutto in una sola vena, quella del braccio antico: perfetta, incorruttibile, ma tale solo per non essere mai stata realmente materia viva e pulsante, perché estranea alla vera vita, che si apre dopo la morte.

14 Allora Michelangelo si mette alla ricerca della vita nella materia, e lì la trova, proprio dove sapeva esserci, in una vena del marmo stesso. Da quell’istante i colpi di scalpello si fanno sempre più intensi, indefessi (fino all’ultimo giorno di vita, si racconta), per cercare di trasferire continui impulsi alla materia, per mantenerla viva.

15 D’altronde monito del maestro era stato “Tu vedi un blocco, pensa all’immagine: l’immagine è dentro, basta soltanto spogliarla.” E così facendo Michelangelo scopre il senso della materia cellulare, dentro la carne e sotto la pelle del marmo, e insieme il senso mai finito della vita.

16 Un senso che torna a concentrarsi sull’origine della vita stessa, e trova forma nel grembo materno, che lo comprende e lo preserva. Quella linea curva della Madre che segue e riceve il corpo del Figlio, trova poi perfetta eco nell’attenta, corale quinta architettonica, grembo a sua volta, che accoglie e custodisce il messaggio sacro e assoluto della Pietà.