L’intuizione e l’angoscia

Riccardo Panigada

Prima di iniziare alcune considerazioni in merito agli importanti risultati del pensiero filosofico e scientifico del Novecento, è opportuno accennare alle teorie di alcuni filosofi del secolo precedente, che le hanno rese possibili.

Se razionalismo ed empirismo erano riusciti a chiarire, in rapporto alla vita umana e al contesto dell’epoca, ciò che si poteva includere nella categoria dei “fenomeni oggettivi”, e a descrivere le leggi che governano le relazioni tra i corpi, rimaneva ancora inesplorato un terreno, che nella storia del pensiero occidentale non era mai stato preso in seria considerazione, al fine di indagare gli strumenti di conoscenza a disposizione dell’uomo.

Angoscia - George Cukor (1944)

Angoscia – George Cukor (1944)

Il pensiero occidentale sempre alla ricerca di conferme e di sicurezze, ha infatti, fin dalle proprie origini cercato tutti i metodi possibili per oggettivare, rendere condivisibili le esperienze e le considerazioni su queste, ove non vi fossero evidenze immediate, e poi ponendo in dubbio le evidenze immediate, al fine di cercare di escludere, magari per assurdo, l’opinabilità di queste ultime.

Le esperienze soggettive, quali, per esempio i sogni, gli stati affettivi, le emozioni, le immaginazioni, le intuizioni, per quanto appartenessero a un mondo affascinate e ricchissimo di contenuti umani universali, rimasero fino all’800 materiale utile per la letteratura, ma non vennero mai prese in considerazione come strumento di conoscenza vista la loro palese inaffidabilità. Essendo infatti soggettive, tali esperienze, per definizione, non potevano portare con sé alcun contenuto di oggettività e sicurezza.

In esse tuttavia si nascondevano almeno due percorsi possibili, utili alla esplorazione delle facoltà che portano alla conoscenza.

Il primo di tali percorsi è dato dal fatto che alcune “esperienze” intuitive soggettive sono comunque comuni a più persone, e possono da queste essere condivise. Le facoltà intuitive, presenti in chiunque, pur essendo talora anche molto differenti tra un soggetto e l’altro, si dimostrano facoltà conservate nel percorso evolutivo della selezione naturale, e possono pertanto ragionevolmente essere considerate funzionali all’esistenza e, di conseguenza, utili alla ricerca.

Il secondo percorso consiste invece nel poter esplorare fenomenologicamente dall’interno la dinamica delle sensazioni e intuizioni che riguardano il soggetto dell’indagine che le sta sperimentando o le ha sperimentate su di sé.

E non si può dire certo che le esperienze soggettive non siano mai state trattate, o siano state trattate distrattamente, dai grandi pensatori della cultura occidentale, ma la loro analisi appariva sempre come esercizio spirituale o letterario, dal quale trarre puro conforto esistenziale ed estetico. O, in altre occasioni, le sensazioni e le loro dinamiche, potevano eventualmente essere offerte come elemento comprovante l’esistenza di Dio, e quindi utilizzate, ancora una volta a tentare di fornire certezza, nonostante la loro natura soggettiva, ma in merito ad argomenti lontani dalle tematiche scientifiche.

Nel XIX secolo, invece, anche le esperienze soggettive, per il semplice fatto di esistere in ogni uomo, vennero finalmente prese in considerazione e studiate, per ricercarne la matrice comune, e poter includere la sensibilità dalla quale emergono tra gli strumenti utili alla ricerca.

Le esperienze soggettive presentano la problematica di dover venire riferite dal soggetto esperiente ad altro soggetto che non può, far altro che prendere atto di quanto riesce a comunicare chi ha provato una determinata esperienza, ed eventualmente ripeterla in separata sede con la propria soggettività.

Nonostante tutta l’incertezza che questa procedura comporta, non vi è altra modalità d’analisi per certe dinamiche del pensiero e sensazioni intime al soggetto esperiente, pertanto si dovrà scegliere tra una delle due opportunità: – o non attribuire valore alcuno alle esperienze soggettive, e, quindi, a gran parte dell’attività del pensiero teoretico (non solo quindi alla metafisica); – o accontentarsi di poter collezionare un insieme di “punti di vista” e di riflessioni, al fine di confrontare le proprie esperienze soggettive con quelle riferite da altri.

Per sopperire alla quantità d’informazione che necessariamente viene alterata a causa della trasformazione dell’esperienza in simboli appartenenti al patrimonio culturale comune, perché l’esperienza possa venire da altri intesa, dovranno intervenire le facoltà intuitive.
Dal punto di vista biologico le facoltà intuitive hanno la funzione di permettere la percezione del sé e del reale, al fine di consentirne i rapporti vitali col mondo.

Tali facoltà sono dunque uno strumento naturale in dotazione dell’uomo non meno importante di quanto non lo sia la ragione, la quale può iniziare ad esercitare la propria attività solo successivamente al primo periodo dell’infanzia, in cui, per la sopravvivenza, sono necessari e indispensabili insieme agli istinti e alle cure materne, l’intuizione degli stati affettivi.

La problematica del dualismo tra mente e corpo insorge pertanto come contrasto tra attività dell’intùito e attività della ragione. Analogamente la problematica delle origini dell’universo: la realtà degli oggetti che compongono l’universo e che vengono visti dal soggetto, è intuìta dal soggetto non meno di quanto il soggetto possa solamente intuire (ma non “dimostrare” nemmeno a se stesso) il proprio sé, anche quando ha raggiunto la maturità di ascoltare il proprio pensiero, che si pone degli interrogativi.

Ai fini della sopravvivenza biologica fino al raggiungimento dell’età riproduttiva necessaria alla conservazione della specie (unico target della selezione naturale), è assolutamente superfluo che gli esseri umani vedano altre frequenze d’onda oltre a quelle dell’iride. Ma lo strumento razionale posto a disposizione dell’uomo ha comportato un’evoluzione tecnologica che ha consentito agli uomini di rilevare l’esistenza e utilizzare ben altre frequenze dello spettro.

Lo stesso strumento razionale, la cui capacità di astrazione è indispensabile alla costruzione “a priori” di teorie utili al miglioramento dell’esistenza, e quindi della capacità riproduttiva, ha la prerogativa di poter essere potenziato con l’esercizio.

La ragione arrivando quindi ad acquisire facoltà di astrazione che le hanno consentito di riflettere su se stessa e sulle proprie origini, sconfinando dalla propria finalità biologica, ha incontrato difficoltà notevoli: vorrebbe, in sostanza, affrontare un compito per il quale non è stata progettata, né per il quale la natura ha previsto dinamiche di selezione orientate al miglioramento.

Non c’è da meravigliarsi, quindi, se, quando si ha a che fare con le onde della meccanica quantistica (le quali la natura non aveva certo previsto che potessero venire rilevate dagli esseri umani), la ragione incontra ancora una volta difficoltà insormontabili rispetto alla propria architettura.

La necessità di riuscire a trovare delle “spiegazioni” per acquietare l’angoscia derivante dall’insicurezza di aver a che fare con ontologie incomprensibili, insorgenti da dati sensibili o sperimentali, elaborati da un atteggiamento del pensiero che s’interroga sulla loro natura costitutiva e sulla loro appartenenza a sistemi coerenti a quanto intùito e ragione possono serenamente accogliere, non sarà probabilmente mai esaurita.

Ma cosa si sta trattando col termine “intuizione”? quante e quali accezioni ha il termine? è giusto che questa pericolosa parola, a seconda delle situazioni, venga snobbata, e considerata segnale di pura ciarlataneria, e in altri casi sia invece indispensabile per celebrare adeguatamente il genio di scienziati di indiscutibile affidabilità? quale ruolo ha veramente l’attività intuitiva nella nostra vita quotidiana? e quando le persone agiscono per intuizione ne sono consapevoli? sono disposte a riconoscerlo pubblicamente? e quale affidabilità attribuiscono invece all’intuizione dentro di sé?

Meglio fare qualche esempio. Supponiamo che uno scienziato di indubbia correttezza sia sul piano intellettuale, sia su quello umano, si trovi a dover scegliere uno tra due ricercatori da lui considerati egualmente validi per un unico posto disponibile nel laboratorio che dirige.

Potrebbe sempre affidarsi al lancio della monetina, e poi “truccare” le motivazioni, per spiegare con riferimenti a criteri il più possibile oggettivi, che – pur riconoscendo alla persona rimasta esclusa eguali meriti – la scelta è dovuta cadere sul concorrente. Ma, se ci fosse una “vocina interiore”, che comunicasse qualche impressione imprecisabile a favore di uno dei due ricercatori rispetto all’altro, il nostro integerrimo scienziato si affiderebbe comunque al lancio della monetina?

Il metodo della monetina sarebbe l’unico a poter salvare il nostro scienziato dall’imbarazzo che si troverebbe a provare di fronte a un eventuale amico e collega – simpatizzante per il ricercatore rimasto escluso – che gli chiedesse quale criterio avesse portato alla scelta.

Ma perché lo scienziato non sarà in grado di rispondere sicuro di sé al collega: “ho scelto seguendo il mio intùito”, pur essendo certo di aver fatto la cosa più corretta?

L’esempio riportato rischia di sollevare nei lettori animosità riguardanti il malcostume delle simpatie e delle clientele, tematiche che esulano totalmente dalla finalità della presente analisi, bisognerà quindi cercare di calarsi in una situazione ideale, in cui l’intùito dei due docenti fosse veramente scevro da ogni altra motivazione, che non fosse quella della diversa impressione di ciascuno di loro rispetto alle previsioni di futuro successo nel lavoro dei due distinti ricercatori.

Il fatto di essere entrambi scienziati di cultura occidentale impedirà ai due personaggi dell’esempio di rifarsi serenamente a propri criteri intuitivi, (solo se in grande confidenza sapranno rivelare l’uno all’altro il vero motivo della diversa preferenza, ma consapevoli di concedersi in quel momento considerazioni completamente estranee ai criteri da tenere ufficialmente in considerazione e rendere pubblici).

Ma si prenda in considerazione l’eventualità in cui si annunci in pubblico una scoperta raggiuta attraverso una vera e propria innovazione ai paradigmi d’indagine scientifica, che comporti una vera e propria rivoluzione culturale nel contesto di una determinata disciplina.

Anche se nella maggior parte dei casi le scoperte avvengono per serendipità (proprio a causa della difficoltà che generalmente incontrano i ricercatori ad allontanarsi dai paradigmi di ricerca), vi è infatti la possibilità che quella facoltà chiamata appunto “intuito” possa portare alla scoperta di qualcosa di nuovo.

In questo caso, accreditatosi mediante l’evidenza di una scoperta oggettivamente riscontrabile, l’intuito dello scienziato autore della medesima sarà esaltato come tale, e gli procurerà probabilmente l’appellativo di “genio”.

Insomma in occidente si riconosce a chi ha intuito una marcia in più, tuttavia le facoltà intuitive, di cui generalmente si diffida, non vengono favorite o coltivate, ma anzi si colpevolizza chiunque le preferisca al lucido calcolo razionale, e sono perciò ufficialmente occultate sebbene chiunque (più o meno consapevolmente) ne faccia uso.

In sede epistemologica il metodo razionale ipotetico deduttivo attua il proprio percorso logico analitico dal generale al particolare (premessa maggiore, premessa minore, conclusione); mentre il metodo intuitivo procede in senso opposto allargando le prospettive a partire dal dato particolare.

Ne consegue che nel percorso intuitivo le inferenze sono quindi audacemente estrapolate, ma è solo da questo metodo che potranno essere generate ipotesi, le quali siano in grado di produrre sistemi assolutamente nuovi e insospettabili.

Dell’esistenza di un possibile “metodo” intuitivo non si vuole prendere atto in occidente, poiché la coscienza razionale (quella che, se non altro per il fatto di essere in grado di interrogarsi sulla propria essenza ed esistenza, deduce di porsi come entità data) non ammette nella mente la presenza di facoltà maggiormente utili rispetto a quelle logico-deduttive che le hanno consentito di ri-conoscersi (anche se non di conoscersi). Eppure appena si accetti di prendere atto della propria esistenza particolare, la mente non riesce a esimersi dalla ricerca dei fondamenti universali dell’esistenza, ai quali non si potrà mai arrivare attraverso il metodo deduttivo: da cosa si potrà infatti mai dedurre il massimo grado del concetto di universalità?

Il metodo razionale ipotetico-deduttivo ha dunque sia dei limiti insormontabili, non potendo fornire spiegazioni considerate soddisfacenti dai parametri posti dal metodo medesimo; sia non può fare a meno di riscontrare l’esistenza di operatori mentali emergenti da facoltà istintive, nonché la loro ineluttabile validità operativa.

Il percorso sensoriale è infatti un percorso istintivo-induttivo, ed è in grado di produrre intuizioni ineccepibilmente valide in quanto necessarie e funzionali alla sopravvivenza biologica. Gli oggetti esterni al corpo sono infatti percepiti e intuiti a livello mentale senza alcuna mediazione, senza alcun passaggio dal generale al particolare: sono oggetti particolari grazie alla percezione dei quali si può intuire induttivamente la struttura dello spazio esterno che li contiene, e, per analogia tratta dalle loro proprietà sensoriali ricorrenti, alla categoria logica dell’insieme che contiene tutti gli oggetti della stessa classe.

Il metodo induttivo essendo collegato a facoltà istintive spontanee è entrato in atto molto prima della formazione delle aree cerebrali che hanno consentito la conservazione nella memoria dei dati derivanti dalla percezione e la loro elaborazione razionale.

La natura ragionativa del metodo deduttivo, è possibile solo in un cervello complesso, nel quale, nondimeno, continuano a risiedere gli istinti, e in cui restano indispensabili le procedure naturali induttive.

Poiché il metodo razionale deduttivo, consentendo facoltà astrattive presenti alla coscienza (la più semplice delle quali è la memoria) risultava chiaramente più evoluto dell’induzione istintiva, la cultura occidentale ha privilegiato le facoltà razionali ipotetico-deduttive, ignorando la possibilità di studiare anche un metodo per conoscere le facoltà intuitive-induttive della mente.

Eppure nel mondo naturale, spesso molto pericoloso, è richiesta una velocità di azione (si pensi, per esempio, all’audacia necessaria a rischiare pur di salvarsi) che sarebbe assolutamente troppo scarsa, se si affidasse al metodo razionale ipotetico deduttivo.

Le capacità intuitive vennero quindi riconosciute efficaci e indispensabili nel contesto della sopravvivenza nella natura selvaggia e in dotazione soprattutto agli animali, mentre gli uomini (soprattutto in occidente) le alienarono da sé sempre di più, con l’eccezione di assumere talora decisioni dietro il loro naturale impulso, ma spesso nascondendo perfino a se stessi che ciò potesse avvenire.

Metodo induttivo spontaneo e metodo deduttivo hanno in comune originariamente la prerogativa di consentire all’uomo rappresentazioni conformi al mondo euclideo in cui la mente umana è inserita, data la sua necessità di rapportarsi esclusivamente a un contesto fisico euclideo ai fini della sopravvivenza.

Se al metodo ipotetico deduttivo (il quale, come si è visto, per definizione, non potrà mai aprire scenari diversi da quelli tradizionali e isomorfi rispetto all’uomo e alla sua mente) si deve riconoscere la capacità di aver consentito lo sviluppo scientifico e tecnologico a tutti evidente nell’epoca contemporanea, il fatto di non avere coltivato la potenzialità epistemologica delle facoltà intuitive ha precluso per moltissimo tempo la scoperta di mondi con orizzonti più ampi rispetto a quelli immediatamente sensibili entro i quali si svolge l’esistenza umana.