Bologna: natura ed espressione

di Marco Marinacci

Tra i lunghi portici e le alte torri della capitale emiliana si nasconde un genius loci giocoso e vivace, uso a sbirciare in ugual modo tra le leggere vesti femminili e sotto le pesanti tuniche dei dotti: coloro che con esclusivo sapere avevano donato il sigillo delle virtù intellettuali alla città, mentre quelle morali si pascevano di bellezza. Bologna “la dotta” si distende così, armoniosa e seducente, nell’accogliente Pianura, come un leone a riposo, sazio del suo lauto pasto, e ben conscio che una sola zampata gli sia sufficiente ad afferrare la prossima preda. Questa è la storia dei pittori, degli scienziati, e degli storici dell’arte, che hanno eletto la città padana a dimora: i più ferini, i più sottili, i più attaccati alla “carne” delle cose, sapendo che è lì, in quel tessuto di cellule inscindibili, che si nasconde la vita. E nella vita l’arte, e le verità più inafferrabili che essa porta con sé.

Così Francesco Arcangeli, quando il suo maestro, Roberto Longhi, affermava con piglio sicuro “l’arte nasce dall’arte”, ribatteva risoluto, grazie alla consapevolezza acquisita nei lunghi anni di camminate per le vie pullulanti di studenti intorno all’università: “no, l’arte nasce dalla vita!”.¹

Quella vita fatta di carne, come ben sa Annibale Carracci quando, nel 1585, dipinge La bottega del macellaio; col suo baccano, coi suoi colori, coi suoi sguardi, e le ombre gravide di quotidianità.

Lo sguardo di quel “genietto” bolognese, quel moto curioso e indiscreto con cui invèstiga sotto le vesti come sotto la pelle, è d’altronde avvezzo all’indagine anatomica. Un’indagine che parte da Leonardo, grazie alla quale lo sguardo padano attraversa dritto e deciso il ‘500, per arrivare per niente spossato dalla lunga marcia, ma affamato di nuove verità, alla fine del secolo; e appena si posa sui banchi di una macelleria, o nella ciotola di un ignaro Mangiafagioli,² ne fa subito una scorpacciata.

Tanto che poi, come tutti i coccodrilli sanno, saranno lacrime… perché l’altro lato, la faccia oscura della luna, è sempre lì, che osserva dall’alto le torri, e ha il volto della melancolia

Se il merito di comprendere a fondo l’impatto innovativo che il Mangiafagioli di Annibale Carracci ha rispetto all’iconografia precedente legata al genere è dovuto alla possibilità di un raffronto offerto dalla riscoperta sul mercato antiquario del suo precedente diretto, Villano che suona il liuto di Bartolomeo Passarotti,² è invece alla Biennale d’Arte Antica del 1970 che va ascritta la ricerca con la quale Francesco Arcangeli gettava una luce nuova, e definitiva, sul carattere archetipico – il “primario” del “pensiero in figura” – della pittura bolognese. Facendo seguito alla grande mostra su Guido Reni del 1954, a quella del 1956 dedicata ai Carracci4, a quella del 1962 che tracciava le linee de L’Ideale Classico nel Seicento, e a quella del 1968 volta a riconsiderare la centralità e le peculiarità della figura di Guercino nel panorama dell’arte barocca, tutte nel segno dell’individuazione dell’anima classicista della pittura – corrente che dettò gusti e tendenze nel XVII secolo – Arcangeli virava nettamente verso una direzione opposta e all’epoca oscura, e nelle grandi sale del Palazzo dell’Archiginnasio di Bologna prendeva corpo una rassegna memorabile del volto fino allora sconosciuto della pittura padana: Natura ed espressione nell’arte bolognese-emiliana.

Indicando le fil rouge che lega la ricerca autonoma di un autore come Amico Aspertini alla grande corrente dell’espressione realista, che diventerà lingua comune nel XVII secolo, la mostra ideata da Arcangeli creava il tessuto connettivo per comprendere il grande corpo dell’arte moderna.⁵

Ma, se dietro alla figura si nasconde un pensiero, le cellule intorno ad Aspertini dovevano essere collegate “per sinapsi”, e l’idea comune si chiamava avanguardia; solamente, non andavano ricercate nello stretto giro dei confini regionali, ma si doveva – come non era mai stato fatto prima – guardare all’Europa! Allora si stagliavano chiari i nomi di Grunewald, Altdorfer, e Dürer, in particolare, la cui allegoria della Melancolia, nella sua contrita riflessione, creava l’esatto controcanto alla rassegnazione della Vergine che guarda il Figlio, trasformato in corpo inanimato, nella grande Pietà del maestro bolognese.⁶

Un male dello spirito, quello della melancolia, che in questi ultimi decenni del secolo sembra sempre più diventare il fatale gorgo in cui l’anima dei più nobili artisti verrà attirata inesorabilmente, tanto da rapire anche quella di Annibale, il quale, spossato dalla tragica fatica di Palazzo Farnese, ne morirà.⁷ Se poi si considera che l’eroe-antieroe per eccellenza del secolo a venire, don Quijote de la Mancha, morirà di melancolia, e Shakespeare ne farà l’attributo dei suoi personaggi più tragici, si coglie a pieno l’ombra che verrà gettata in questo momento da questo oscuro e sublime moto dell’animo su tutto il pensiero moderno.

Note:

1) Flavio Caroli, Con gli occhi dei maestri. La storia dell’arte nella vita e negli insegnamenti di Longhi, Graziani, Arcangeli, Briganti, Gombrich e Ragghianti, Mondadori, Milano, 2015.
2) Il Mangiafagioli, dipinto da Annibale Carracci tra il 1584 e il 1585, di tema feriale come le macellerie, è l’opera di genere che meglio ci permette di afferrare il “pensiero in figura” del maestro bolognese. Dal 1679 risulta nella collezione del cardinale Lazzaro Pallavicini a Bologna, dove era vicelegato pontificio. Dai Pallavicini il dipinto fu poi ceduto ai principi Colonna, presso il cui Palazzo romano oggi è custodito. Pur mostrando affinità iconografiche con opere di artisti coevi come Vincenzo Campi o Bartolomeo Passarotti, al quale infatti lo stesso Roberto Longhi legava l’autografia, prima della ripulitura avvenuta negli anni Cinquanta che ne ha definitivamente consolidato l’attribuzione al Carracci, se ne discosta, in modo decisivo, quanto all’iconologia.
Se pur sembra indubitabile l’influenza di alcuni precedenti del Passarotti, che forse fu addirittura per un breve periodo maestro di Annibale, come La bottega del macellaio e L’Allegra compagnia, ascrivibili al nono decennio del XVI secolo, dove balza all’attenzione il nuovo rapporto dialogico creato tra gli umili protagonisti della scena e l’osservatore, è nel Mangiafagioli che troviamo una diretta rispondenza di valori iconologici con un’opera del primo: Villano che suona il liuto, ricomparsa di recente sul mercato antiquario.
Daniele Benati,  nella mostra dedicata al bolognese nel 2006 (Annibale Carracci, Catalogo della mostra Bologna e Roma 2006-2007, a cura di Benati D. e Riccomini E., Milano, Mondadori Electa, 2006, pp. 91 e segg.) indica, oltre che nella evidente sovrapponibilità compositiva delle due opere, in alcuni dettagli il nesso che lega direttamente i due artisti, come mostra il piccolo orcio di vino presente su entrambe le tavole imbandite, che compare anche nell’Allegra compagnia del più anziano maestro.
Il balzo in avanti percorso da Annibale è però sconfinato: è ora assente ogni forma di deformazione grottesca e triviale, che assume una connotazione parossistica e spesso non priva di manifeste allusioni sessuali nei protagonisti delle scene di osteria del Passarotti e del Campi, del quale ultimo basti vedere i Mangiatori di ricotta o i Pescivendoli. Di più: il Mangiafagioli di Annibale restituisce un vero e proprio tranche de vie umile e quotidiana. Ma soprattutto è la dignità del protagonista ad essere messa in luce con evidenza, innalzandolo al ruolo di personaggio tragico, quindi trasferito in un nuovo registro tutt’altro che comico, dal quale pure potrebbe derivare (è stato identificato con alcuni personaggi della Commedia dell’Arte, come Zanni o Bertoldo), che trascrive puntualmente tutto il senso esistenziale di questa nuova figura, e aprirà alle istanze del secolo a venire, rispondendo per primo alle istanze pauperiste emerse dal Concilio di Trento.
3) abbiamo più ampiamente affrontato il tema in numerosi precedenti articoli della rivista, cui rinviamo, ricordando semplicemente qui che con Melancolia indichiamo non il semplice tòpos iconografico, ma tutto il pensiero fisiognomico che si sviluppa nel corso del tempo intorno al tema, così come analizzato nel volume di Flavio Caroli, Storia della Fisiognomica, interamente dedicato a delineare il portato in campo artistico di un tale orizzonte epistemico.
4) Dei tre, Annibale, il fratello Agostino e il cugino Ludovico, Arcangeli predilesse sempre quest’ultimo, esprimendo questo favore con una semplice, ma invero incontrovertibile constatazione: sarà lui il pittore che andrà a creare il nuovo modello di pala d’altare, che detterà le regole per i due secoli successivi, con tutte le implicazioni iconografiche e iconologiche che ne deriveranno, sull’intero orizzonte espressivo della pittura moderna occidentale.
5) Un corpo malato di melancolia, verrebbe da dire. Ma l’anamnesi di Arcangeli era invero esattissima. Come ben evidenziato da Federico Giannini e Ilaria Baratta sul loro blog “finestresullarte”, gli studi dello storico sull’arte bolognese ed emiliana coprivano un arco temporale sconfinato: dall’anno Mille al contemporaneo. «Arcangeli riteneva che l’arte di Bologna e dintorni fosse sempre stata contraddistinta da una costante che non l’avrebbe mai abbandonata: il profondo rapporto con la natura, dovuto al fatto che il sostrato culturale di Bologna deriva dal suo legame con le campagne e con la civiltà rurale che, nel corso dei secoli, ha permesso alla città di svilupparsi. Un rapporto che si sarebbe sviluppato grazie a un’arte fortemente carica, molto espressiva, dal sapore spiccatamente popolaresco: Arcangeli faceva risalire le origini di questo modo di fare arte ai rilievi di Wiligelmo. Siamo in epoca romanica, e con Wiligelmo la ieraticità dell’arte bizantina lascia spazio a una narrazione più segnatamente umana, in cui è tangibile il dramma dei personaggi che l’artista rappresenta nella sua scultura. Valgano, a mero titolo d’esempio, i rilievi della Genesi sulla facciata del Duomo di Modena, con una delle cacciate dal Paradiso terrestre più potenti della storia dell’arte: la disperazione dei progenitori è tangibile. Non dimentichiamo poi che l’arte padana, e in particolare quella emiliana, in epoca romanica dava grandissima importanza al lavoro: in quest’epoca abbondano i cicli cosiddetti “dei mesi”, in cui a ogni mese dell’anno è associata la figura di un personaggio che si dedica a un mestiere tipico del mese.
Questo legame tra arte e natura, questa visione del mondo che affonda le sue radici nelle tradizioni contadine della civiltà padana, rappresenterà una sorta di fil rouge che percorrerà tutta la storia dell’arte bolognese fino ad arrivare ai giorni nostri. Si pensi, per esempio, al drammatismo di un artista come Vitale da Bologna, o ancora all’“antirinascimento”, per usare le parole di Arcangeli, di Amico Aspertini, uno dei geni più bizzarri e dissacranti del Cinquecento, che oppose la sua arte a quella più lirica e delicata di Francesco Francia, che era invece pregna della dolcezza derivata dallo studio dell’arte del Perugino. Dal Cinquecento si passa al Seicento con il pietismo devozionale e quasi popolaresco di Ludovico Carracci, che Arcangeli vedeva come una figura in netta contrapposizione rispetto al cugino Annibale, esponente invece di un aggraziato classicismo. Le scene anticlassiche e quotidiane di Giuseppe Maria Crespi continuano questa linea dell’arte bolognese nel corso del Settecento, finché non si arriva al Novecento con le intime nature morte di Giorgio Morandi, l’artista forse più d’ogni altro capace di rappresentare la semplicità e la genuinità del carattere dei bolognesi.
Questo, in sostanza, il percorso della mostra Natura ed espressione di Francesco Arcangeli. Un viaggio lungo otto secoli, durante i quali però alcune caratteristiche comuni dell’arte bolognese, per Arcangeli, rimangono immutate.
Nel catalogo della mostra ne individuava, in modo sistematico, otto. Sono delle “costanti”, come le chiamava lo studioso.
La prima: lo spazio del dipinto, “denso e corposo”, pieno di corpi, “essenzialmente aprospettico”. Uno spazio quindi intuitivo, carico, regolato non da leggi matematiche, ma dai corpi stessi che lo occupano. Un esempio è la Pietà di Amico Aspertini, dipinto non solo ricco di fortissimo pathos, ma anche connotato da quello spazio “denso” e “aprospettico” di cui parlava Arcangeli, in quanto senza vuoti, interamente occupato dai personaggi e privo di riferimenti spaziali. Un dipinto, per certi versi, anticipatore del manierismo.
La seconda: la vicinanza spaziale. Arcangeli individua una costante dell’arte bolognese nel fatto che gli elementi raffigurati nel dipinto sono sempre vicini a chi lo osserva. Questo perché la vicinanza, a livello emotivo, riesce a coinvolgere maggiormente lo spettatore, al contrario della lontananza che comporta distacco.
La terza, diretta conseguenza delle prime due: la comunicazione spaziale con l’osservatore, con le scene che tendono a svolgersi sempre in primo piano.
La quarta è quella che Arcangeli chiamava il brano di vita, ovvero la tendenza, dell’arte bolognese, di rappresentare entro i limiti fisici del dipinto nient’altro che un frammento di una figurazione più ampia: è la sensazione che ricaviamo, per esempio, dalle tavole con le Storie di sant’Antonio Abate di Vitale da Bologna, una delle quali scelta per decorare la copertina del catalogo dell’esposizione.
E ancora, la “prepotenza del particolare”, ovvero la capacità dei singoli dettagli di richiamare la nostra attenzione: su un dipinto come la Latona che trasforma i pescatori in rane di Crespi non si può fare a meno di soffermarsi su ogni singolo particolare di questa potente composizione, di questa “bizzarra scena di vita naturale, rustica”.
E infine, le ultime tre costanti dell’arte bolognese secondo Arcangeli:
– la “plasticità diretta e non chiaroscurale” (lo vediamo bene, per esempio, e forse alle sue conseguenze più estreme, nelle nature morte di Morandi);
– il “chiaroscuro tonale-cromatico”, in cui il colore di base non perde mai i legami col colore di vertice;
– per ultimo il colore “strettamente legato a un chiaroscuro di luce e d’ombra”, e che legandosi quindi alla luce e alle ombre creando effetti veridici, diventa “contingenza, meteorologia, protoimpressione”.
Obiettivo della mostra di Francesco Arcangeli fu – indicano correttamente Federico Giannini e Ilaria Baratta – quello di far emergere questo solco della tradizione bolognese, avvicinandolo a quello, più solenne, più ufficiale (e, ovviamente, più studiato) della tradizione classicista: riuscire in questo obiettivo significava anche far entrare Bologna in possesso di una delle sue anime più vere e più profonde. Doveva esserci un’arte che rispecchiasse il carattere cordiale, sincero e passionale dei bolognesi, e questa arte non poteva che essere un’arte legata alle tradizioni popolari, legata alle radici: tant’è che, per la prima volta, le origini dell’arte bolognese venivan fatte risalire non al Trecento, bensì addirittura a Wiligelmo, quindi a un’epoca in cui i ritmi della vita umana erano fortemente scanditi da quelli della natura, ben prima che l’ascesa della borghesia introducesse un’economia basata sul commercio e sui traffici mercantili, piuttosto che sull’agricoltura, e andasse quindi a modificare in modo radicale gli stili di vita delle comunità. Con la mostra di Francesco Arcangeli, le nobili eleganze classiciste venivano, per la prima volta, contrapposte alla genuinità popolare. La Bologna “dotta” degli intellettuali raffinati contro la Bologna “grassa” dei contadini che si ritrovano nelle osterie, delle giovani massaie generose, dei popolani che commerciano sotto i portici: è dunque merito di Francesco Arcangeli se oggi, nello studiare l’arte bolognese, questo tipo di arte più popolaresca, ma non meno interessante, non può essere messo in secondo piano.»
6) Si intende la Pietà con i santi Marco, Ambrogio, Jovanni Evangelista e Antonio abate, del 1519, conservata presso la  Basilica di San Petronio, a Bologna.
7) Così racconta la cronaca di Giulio Mancini: «estrema malinconia accompagnata da una fatuità di mente e di memoria che non parlava né si ricordava». Certamente fu segnato dalla terribile esperienza dei lavori in Palazzo Farnese, il cui ciclo se da una parte rappresenta l’esito più alto della produzione di Annibale, in particolare nei Trionfi della Galleria, dall’altra ne decreta la disfatta personale. Al “trionfo” sembra infatti legarsi fatalmente la “caduta”: Annibale, stipendiato fin dall’inizio in modo assai modesto dal cardinale Farnese, doveva occuparsi di tutte le “esigenze figurative” della casata, realizzando quadri, progettando apparati effimeri per le feste, disegnando le suppellettili usate a palazzo, fino a essere considerato alla stregua di un servitore.