L’anima del paesaggio

a cura di mm

Dopo i fatti che ci hanno toccato in questi ultimi tempi, con il terremoto tornato prepotentemente all’attenzione della cronaca, non potevamo esimerci da una profonda riflessione che investe l’eterno rapporto dell’uomo con la natura. Un rapporto che nasce non da un’esigenza, ma dallo stesso principio ontologico che fa dell’essere umano un “abitante” la terra, con tutte le implicazioni che questo termine porta con sé, a partire dalla memorabile analisi di Martin Heidegger.
Se un tema (al quale sono a suo tempo stato introdotto dalle ricerche assidue indirizzate in tal segno dal mio maestro) come quello dell’anima del paesaggio ci è molto affine ¹, tanto da aver conosciuto la pubblicazione di monografie dedicate ², vogliamo qui comunque riprendere il sensibile pensiero di Massimo Venturi Ferriolo, filosofo e paesaggista da suoi brevi e illuminanti passi.
Venturi Ferriolo introduce il paesaggio collegandolo direttamente all’immaginario simbolico umano, che, come già altrove ampiamente precisato³, partecipa da elemento primario, alla creazione artistica:

«Un prato, oggi, nell’immaginario comune, funge da emblema del paesaggio, simbolo di una natura sempre più artificiosa, molto raffinata, dove risaltano i colori, ma non l’anima. Queste forme di natura sono paesaggi, presenza umana. Una diatriba frequente riguarda l’esistenza di un paesaggio naturale e il contrasto uomo natura. Ci ricorda l’inesistenza di una natura intatta. Gli storici hanno dimostrato la reale essenza di molte riserve attuali di boschi e foreste come luoghi dove l’uomo non ha più utilizzato il materiale arboreo per costruire case e navi, né ha più praticato l’agricoltura, abbandonandoli allo stato, per così dire, selvaggio».?

Ma, soprattutto, l’analisi di Venturi Ferriolo, colpisce quando definisce il rapporto etico che lega luoghi e tempo:

«Intravediamo ora i paesaggi con le loro etiche: ogni tempo e luogo hanno le proprie forme. L’uomo, allo stato originario, inserito nella natura, privo di specializzazione, crea il primo luogo dell’abitare: il paesaggio della Grande Madre, dove inizia la sua attività di demiurgo – come dice Platone dell’artefice del mondo, presente anche nella Genesi dell’Antico testamento. Costruisce dimore. Le grotte sono le sue prime abitazioni come mortale abitante della terra. Sono anche sepolcri dove torna in posizione fetale alla natura, alla Grande Madre non affatto benevola, dalla quale si deve difendere: gli offre la vita, ma gli dà anche la morte. Nascono le prime forme dei luoghi dell’abitare sempre più perfezionate dalle tecniche di costruzione, a partire dalla chora di Pantalica, insediamento rupestre lungo il fiume Anapo in Sicilia. Dove c’è l’acqua s’instaurano le prime forme di vita: il paesaggio presuppone la presenza dell’acqua, essenziale alla vita.
Nel paesaggio irrompe il sacro. La Grande Madre è la terra dove l’uomo cammina e, allo stesso tempo, una dea luminosa. Il divino è luminoso, sia nel mondo della Natura, sia in quello veterotestamentario. Il destino dell’uomo – come recita il frammento DK 87B50 di Antifonte – è effimero e legato alla luce: “la lunghezza della vita assomiglia alla durata di un giorno, con gli occhi rivolti verso la luce”. Per l’uomo greco vivere significa affrontare la luce in faccia: il giorno è in realtà tutto ciò che prende forma nella luce.?
La luce permette la proiezione dello sguardo in un orizzonte paesaggistico: uno spazio libero in cui si può spingere l’occhio, limitato, appunto, dall’orizzonte, vale a dire da un bordo. L’infinito, fino a Plotino, ha valenza negativa perché si confonde con l’illimitato e l’indeterminato. Come sostiene Nietzsche, i greci furono superficiali in profondità.
La maestosità del mondo visibile si manifesta grazie alla luce e al divino, al numinoso (Rudolf Otto), mysterium tremendum et fascinans, presenza invisibile e visibile maestosa, potente, che ispira terrore e attira: esperienza costitutiva dell’elemento essenziale del sacro e fonte di ogni atteggiamento religioso dell’umanità. La natura può manifestarsi nella sua ambivalenza del tremendum, il terribile, il sublime, il maestoso, ma anche del fascinosum, l’incantevole e l’affascinante. Sentimento extrarazionale alla fonte di ogni religione, dà origine al sacro. La presenza del numinoso nel cosmo unitario della Physis è immanente: una presenza sconosciuta alla nostra consuetudine, con la trascendenza e con la conseguente idea di un dio lontano che governa il mondo. La stessa originaria immanenza divina si conserva nel cosmo di Zeus, dove si è frantumata l’unità della Physis, con la differenza fra il maschile e il femminile, tra gli dèi e le dee – gli attributi della Grande Madre confluiti in molteplici divinità.
Il concetto del numinoso richiede uno sforzo d’immaginazione. Dinanzi a fenomeni caratteristici di un dato ambiente che ci circonda come la presenza di alberi, animali, monti, acque, eventi atmosferici o situazioni particolari di esperienza personale; come lo smarrirsi nei boschi: siamo, per così dire, afferrati e proviamo un brivido, come se avvertissimo presenze al di là di ogni nostra comprensione. Alcuni aspetti della natura, che ci affascinano, e incutono timore nello stesso tempo, diventano simboli del sacro, di ciò che oltrepassa ogni possibilità di conoscenza: provoca smarrimento. Per gli antichi erano presenze reali: non era ancora operante la distinzione tra natura e spirito, mondo sensibile e mondo soprasensibile (W.F. Otto).
“La maestosità del mondo visibile” – felice espressione di Novalis – presupponeva il dialogo tra alberi, piante, rocce e animali in un contesto sacro scomparso con la morte di Pan, quando le pietre diventano pietre, e gli alberi, alberi, come ci riferisce Plutarco nel Tramonto degli oracoli. Socrate con l’accenno alla Quercia di Dodona, epifania divina, ricorda questo periodo della storia dell’umanità.? Pausania è persuaso da una tradizione, un logos, proveniente dai tempi antichi e per lui verosimile, secondo la quale gli uomini di allora erano ospiti e commensali degli dei, con cui avevano un rapporto di visibilità e di elevazione al rango di divinità di alcuni personaggi benemeriti, grazie alla realtà di un mondo caratterizzato dalla pietà e dalla giustizia: una relazione ormai perduta.
La luminosità è la chiave per comprendere l’essenza di ogni paesaggio: indispensabile per osservarlo e svelarne la visibilità senza confini. In particolare quello mediterraneo, spazio del mito e del monoteismo. Le cosmogonie presuppongono la luce come fonte della creazione per contemplare il cosmo, il volto degli dèi e il mondo come un’opera d’arte. La presenza del divino caratterizza lo spirito greco, prima, e quello monoteistico, dopo. Ci offre la chiave interpretativa dei paesaggi in connessione con gli altri fattori culturali e sociali che lo animano. Rivela l’essenza del luogo e rimarrà presente, talvolta velato, nella tradizione speculativa occidentale.
Mitico, quindi, è il legame tra la dea e la vista, luce, contemplazione visiva. Il dio riflette questa realtà. Plutarco ricorda nel De Iside “gli dèi visibili”, e spiega bene il loro significato. Gli theoi indicano visibilità e movimento, come il paesaggio che rappresentano. Il dio è contemplante e corrente. Il suo nome rivela la trasformazione. Luce, visibilità, movimento e occhio sono strettamente connessi. La luce è la totalità del mondo. Senza luce e senza vista il cosmo non è visibile, quindi inesistente. Non è nemmeno rappresentabile. La dea, quindi, è anche la vista, il vocabolo greco thea ha in sé entrambi questi significati. Thea è la luce, dea luminosa dai molti nomi di Pindaro. Possiamo immaginarli come forme di paesaggio: forme della visibilità. Il paesaggio presuppone la luce, senza la quale il mondo non sarebbe visibile. Nella Genesi, Dio, quando crea il mondo, esclama sia fatta la luce: ha origine il cosmo con tutti i suoi elementi, grazie a un demiurgo divino, creatore del cielo e della terra. Dopo aver sprigionato la luce, Dio ne constata la bellezza e inaugura l’estetica biblica.
La luce è vitale per ogni paesaggio nella sua essenza di realtà vivente comprensiva del visibile e dell’invisibile, del materiale e dell’immateriale, del sacro e del profano: in tutte le sue manifestazioni tra mito e realtà. Una bella poesia di Goethe recita:

Se l’occhio non fosse solare,
come potremmo vedere la luce.
Non vivesse in noi la forza propria del Dio,
come potrebbe incantarci il divino?

Visibile è il mondo di Dio, signore della natura – ormai priva della sua sacralità ma opera di un Artefice divino -, al quale è dedicato un inno nel libro di Giobbe dell’Antico Testamento :

Ricordati di celebrare la sua opera
che altri uomini hanno cantato,
tutti gli uomini la ammirano,
i mortali la contemplano da lontano.
per idea arcadica

Il mito svela la nostra cultura. Le profonde radici nel nostro passato rivivono nel mito – dimostrano l’origine di ogni paesaggio. Il mito, parola vera, ricorda un evento originario: ci racconta, oltre la nascita del paesaggio, l’origine della frattura tra l’uomo e la natura. Quello più chiaro riguarda i gemelli divini, Artemide e Apollo. Narra le loro vicende ed è contenuto nell’Inno omerico ad Apollo. Latona, ultima espressione della Grande Madre, ha un rapporto extraconiugale con Zeus, ed è costretta a partorire fuori dell’Olimpo per sfuggire alle ire di Era, legittima sposa di Zeus. Partorisce due gemelli nell’isola di Delo. Artemide è il simbolo della natura selvaggia, parthenos, vergine sacra e inviolabile. Cacciatrice e protettrice degli animali è anche la dea della nascita, la grande matrice del mondo, potremmo dire la Chora platonica. Artemide è allo stesso tempo la matrice, la hyle-materia e la foresta. Abita i luoghi inaccessibili, le foreste che si estendevano al di fuori della comunità umana. La custode di misteri è invisibile e inavvicinabile. È la madre che si delizia di allattare i piccoli di ogni creatura selvaggia, eppure dà loro la caccia e li uccide. A lei sono legate le ninfe, i luoghi selvaggi inaccessibili ai desideri e alle tecniche dell’uomo. Il suo percorso attraversa i simboli della natura tra realtà e immagine: boschi, alberi, fonti, le antiche ninfe.

Apollo, invece, segue un’altra direzione: quella del costruttore, antropizzatore della natura. Sin dal momento della nascita desidera erigere un tempio: è il portavoce presso gli uomini del cosmo di Zeus. Trasforma la natura al suo passaggio. Dio dell’arte e della forma, vuole costruire un tempio per possedere una dimora e per porre il sigillo alla sua opera di paesaggista: lo innalza a Delfi, ombelico del mondo, in posizione dominante il territorio.
L’Inno omerico ad Apollo testimonia la formazione di un paesaggio a partire dalla descrizione di luoghi selvaggi, senza sentieri né strade. Apollo trasforma la natura ovunque transiti e giunge a Delfi, già sede di un santuario della Grande Madre, nei cui pressi costruisce un tempio in una posizione particolarmente favorevole e suggestiva per contemplare figure: le opere degli dei e degli uomini, vera fonte di stupore.
L’Odissea mostra bene la funzione paesaggistica del tempio greco. Odisseo, appena giunto nell’isola di Circe, cerca subito un tempio per osservare la presenza di lavoro umano. Nell’isola dei Lestrigoni, invece, abitata da un popolo selvaggio, inoperoso, Odisseo si arrampica su una rupe per vedere il panorama. Il tempio presuppone il paesaggio: la visibilità dell’opera dell’uomo e del divino immanente. Dimora del dio il tempio può esprimere il numinoso.
I paesaggi, opera del demiurgo, sono il cammino dell’uomo – afferma Rainer Maria Rilke – la sua strada , le palestre, i teatri, le valli, i porti, le feste che si prolungavano nelle notti, le processioni degli dei. Sono l’ethos, l’ambito complessivo della vita, il luogo dell’abitare in movimento come la stessa vita umana. Costruire non è soltanto abitare ma anche dominare il mondo: le arti sempre più sofisticate offrono infinite possibilità progettuali.
La visibilità riflette il paesaggio e la sua leggibilità: la cultura e la creatività umane. Paesaggio è storia dell’opera umana – nel bene e nel male. L’uomo è dotato di abilità pratica. Supera con l’ingegno il bisogno. Domina le forze della natura. Attraversa il mare grazie alle tecniche di navigazione e al controllo dei venti. Coltiva la terra producendo cultura. Il suo ingegno, dalle prospettive sconfinate – avverte Sofocle – può condurlo in opposte direzioni: verso il bene e verso il male. La sua forza distruttrice è pari, se non superiore, alla capacità creativa. Lo ha notato Goethe dinanzi alle rovine di Selinunte: in poche ore si possono distruggere millenni di storia».

Note:
1) Ne abbiamo tratto una tesi di laurea (Bernardo Bellotto, interprete del genius loci, 2006, Politecnico di Milano), in cui si è dimostrato il metodo euristico col quale Bernardo Bellotto svolgeva le sue indagini sul dato ambientale per trarne le sue particolari vedute, oggi ormai universalmente riconosciute per l’originalità della riproduzione del dato empirico, da farne un protagonista non più collaterale al celebre zio, Antonio Canal, ma autonomo e primariamente riconoscibile, come dimostra la mostra “Bellotto e Canaletto. Lo stupore della luce” in programma a Milano presso le Gallerie d’Italia dal 25 novembre 2016 al 3 marzo 2017.
2) Flavio Caroli, Il volto e l’anima della natura, Mondadori, Milano, 2009
3) Indichiamo in tal senso, uno per tutti, il celebre saggio di Erwin Panofsky, La prospettiva come “forma simbolica” e altri scritti, Feltrinelli, Milano 1961
4) da Massimo Venturi Ferriolo, Etiche del paesaggio. Il progetto del mondo umano tra antico e moderno, Editori Riuniti, Roma, 2002
5) Gilbert Romeyer-Dherbey , Les Choses mêmes : la pensée du réel chez Aristote, Lausanne/Paris, L’Âge d’homme, 1983, p. 13
6) La quercia di Dodona è considerata da Pausania (VIII 23.5) tra gli alberi più antichi della tradizione greca insieme all’agnocasto di Era a Samo (il più vecchio), l’ulivo dell’acropoli di Atene e quello di Delo.
7) M.V. Ferriolo, op. cit., pp. 6-13. Per gentile concessione dell’autore