I “Pesaggi e giardini” dei Ciardi a Conegliano fino al 23 giugno

Valeria Roma

Parlare di famiglia razionalmente, al di là delle strumentalizzazioni politiche: ciò è possibile, se ad essa si guarda come nucleo di trasmissione di una sensibilità. Una sensibilità artistica, nel caso dei Ciardi, cui è dedicata una mostra esposta, dal 16 febbraio al 23 giugno, al Palazzo Sarcinelli di Conegliano.

La esposizione delle opere di Guglielmo, Emma e Beppe Ciardi può, sì, essere interpretata come una réunion familiare che, tuttavia, poco o nulla ha a che fare con i legami di sangue, ma che consiste nell’originale tentativo di manifestare l’evoluzione di un pensiero, di un punto di vista sull’arte e sul suo rapporto con la realtà.

Non è, poi, un caso che i curatori abbiano scelto di intitolarla “I Ciardi. Paesaggi e giardini”. Come affermato da Giandomenico Romanelli, infatti, si è scelto, per questa esposizione, di privilegiare le opere dai soggetti naturalistici, a spese della più classica veduta lagunare. Ciò, nel dichiarato intento di mettere in risalto le risorse naturali, oggi ahimè sempre meno rispettate, di cui gode il nostro territorio, dalla campagna trevigiana attraversata dal fiume Sile fino alle Prealpi bellunesi, con qualche incursione fin sulle cime ampezzane. La candidatura delle cosiddette “Terre del Prosecco” a patrimonio Unesco ha, evidentemente, suggerito un approfondimento dell’originaria identità (in buona parte perduta, via coltivazioni intensive dei terreni e conseguente cambiamento climatico) del nostro territorio.

Già lo scorso anno si era scelto di dare spazio a questa ritrovata esigenza naturalistica, con la mostra dedicata a Teodoro Wolf Ferrari, allievo di Guglielmo Ciardi. Ed ecco che, quest’anno, la mostra sul suo maestro si pone in continuità con gli intenti dell’amministrazione comunale. Sono, queste, delle ottime occasioni per conoscere importanti esponenti della moderna scuola pittorica veneziana, le cui opere vengono solitamente, a torto, trascurate dai programmi scolastici.

Guglielmo (1842-1917), per iniziare. Tra i fondatori della Biennale di Venezia, nel 1895, Guglielmo Ciardi fu introdotto nel mondo dell’arte da Domenico Bresolin, fotografo e pittore paesaggista padovano, detentore della cattedra di Vedute di paese e di mare all’Accademia di Venezia. Ma, già dalla sua prima opera importante, “Il Grappa d’Inverno” (1866), è evidente in Guglielmo una presa di posizione autonoma. Il dipinto è tanto scarno quanto lirico. L’assenza di un fulcro, di un chiaro punto di riferimento per lo spettatore, costringe quest’ultimo ad osservare l’opera complessivamente, a confrontarsi con essa già ad un primo impatto. Quasi trent’anni dopo, lo stesso pennello dava vita al suo capolavoro, “Mattino alpestre (Sorapis)” (1894), che, se non fosse per i colori brillanti e la presenza di bestiame al pascolo, grazie al senso di maestosità paesaggistica che è in grado di restituire, potrebbe essere attribuito ad un artista romantico.

Emma Ciardi (1879-1933) è, probabilmente, della famiglia, l’esponente che più ha saputo elaborare autonomamente i vari precedenti vedutisti, impressionisti, macchiaioli. Nelle sue opere è chiaramente visibile l’intento di creare una originale commistione fra gli stili: il risultato è un sincretismo felicemente calibrato. Nei suoi quadri, molto più che in quelli del maestro-padre Guglielmo e del fratello Beppe, si insinuano, neanche troppo defilati, elementi architettonici urbani. Risultato, questo, della sua frequentazione delle grandi metropoli europee ed americane: Parigi, Londra, Buenos Aires, Chicago, per citarne solo alcune. In “Oxford Street” (1908) è possibile vedere molti importanti elementi del suo personale codice artistico: la frenesia della vita urbana, i palazzi borghesi, le figure umane indistinte. La maniera di rappresentare queste ultime è particolarmente significativa: il fatto che esse restino sempre grossolanamente tratteggiate, in pieno stile post-impressionista, suggerisce che a contare di più, per l’artista, fossero i contesti, la presa diretta sulla realtà, più che gli specifici individui.

Il fratello maggiore di Emma, Beppe (1875-1932), è, d’altro canto, quello cui risulta più difficile assegnare uno stile pittorico. Se, infatti, in dipinti come “Il plenilunio” (1900) risulta chiara, per via della tavolozza e della stilizzazione geometrica degli spazi, l’influenza degli artisti nordici simbolisti, ne “La sera sul Sile” (1925) torna, in tutti i sensi, a splendere il sole, con tutte le rifrazioni luminose che tanto giovarono al lavoro degli impressionisti alle cui opere lui, evidentemente, attingeva. Forse, tuttavia, fu nel 1911 che Beppe dipinse la sua opera più rappresentativa: “L’ultimo gradino”. L’esigenza di rendere protagonista la personalità umana, che, invece, funge da semplice ornamento nelle opere del padre e della sorella, si concilia qui con la vocazione paesaggistica. E lo sguardo interrogativo e malinconico della protagonista della tela – una donna che, a giudicare dall’abbigliamento, sembra essere una mendicante – verso il mare e la sponda opposta della laguna pone inquietanti interrogativi allo spettatore: sapremo mai trovare nella natura una risposta alle nostre inquietudini?

Un primo tentativo di risposta: sì, ma solo se saremo in grado di trattarla da pari a pari.