“Farai le figure in tale atto…

di Marco Marinacci

il quale sia sufficiente a dimostrare quello che la figura ha nell’animo; altrimenti la tua arte non sarà laudabile”.

[Leonardo, Trattato sulla pittura, 1290]

“Se un’invenzione artistica può connotare l’aggancio specifico e definitivo fra la consapevolezza critica della follia e studi fisiognomici, essa è identificata dalla Testa di uomo urlante di Leonardo da Vinci, disegnata per il foglio preparatorio della Battaglia di Anghiari. E’ quindi databile con certezza agli anni 1503-1505, ciò che rileva da un lato un risultato ormai pienamente maturo delle riflessioni fisiognomiche che Leonardo va elaborando da più di un decennio, (…) dall’altro questi pochi, miracolosi tratti di matita trattengono tutta l’insensatezza, la violenza e la follia del mondo.” Così Flavio Caroli indica in Leonardo un fondamentale anello di congiunzione della catena tracciata da Michel Foucault in Storia della follia.

Se l’angoscia deriva “dall’insicurezza di aver a che fare con ontologie incomprensibili”, quando queste ontologie coincidono col sentimento dell’amore, non possiamo trovare definizione più perfetta di quella che ne dà Proust. Un sentimento, quello dell’angoscia, ineffabile, chiuso in sé, strozzato nell’io. Un ‘moto dell’anima’ che quando incontra l’arte sembra trasformarsi nel suo esatto opposto: trova finalmente la forza di uscire dalla gabbia del corpo e si trasforma in un urlo, un urlo sordo, inudibile all’udito, ma racchiuso nel colore. Un urlo che darà luogo a dei tòpoiiconologico-fisiognomici più importanti della storia dell’arte: le bocche urlanti. Un urlo che vediamo levarsi per la prima volta dal Guerriero di Leonardo nella Battaglia di Anghiari (1501), per poi dilatarsi in un’eco senza fine nel XX secolo (basta solo pensare alla reiterazione che ne sfoggia la cinematografia: dalla Corazzata Potëmkin di Eizenstein, all’Urlo di Antonioni ad Angoscia di George Cukor). Ma a ben guardare c’è una precisa data d’inizio: il 1888. E’ questo il momento in cui il sentimento privato dell’angoscia si trasforma nell’urlo del mondo, quando “la pittura contemporanea ha piantato i cingoli nei risolutivi, inesplorati territori dell’Espressionismo e della visionarietà.” 1

Una notte di luglio di quell’anno Van Gogh dà vita a un teatro dell’assurdo in cui risuonano le trombe dell’inferno, un suono che può trasformare chi le sente in un ladro, un pazzo o un assassino (scrive Van Gogh), e che si accampa in un piccolo Interno di caffè. Poco dopo si sentono suonare ancora le trombe, ma questa volta per dare inizio a un carnevale grottesco e lugubre insieme in cui ai volti si sono sostituite (per sempre?) le maschere. E’ l’Entrata di Cristo a Bruxelles, dove troviamo testimone sbigottito James Ensor, che cerca di ritrarre con i primi colori che trova sulla tavolozza l’incredibile spettacolo cui è chiamato ad assistere. Ancora un lustro e l’umanità vedrà l’urlo lancinante dell’interiorità inespressa lanciato da Munch, condensarsi in un grumo di colori carichi di implicazioni fisiche, che esprimono l’immensa solitudine esistenziale.

Il più famoso e riprodotto grido di angoscia, a ragione, perché asintoto del malessere privato dell’umanità, e padre delle innumerevoli bocche urlanti che l’arte vorrà raffigurare nel XX secolo (citiamo solo ad esempio, perché non sfugga la potenza del messaggio, il cavallo di Guernica). 2

Anche Francis Bacon, il grande pittore irlandese, padre della componente realista contemporanea, con Papa II, ispirato al ritratto di Innocenzo X di Velázquez, tenterà di lanciare un grido all’umanità. Sarà però un tentativo disperato, e quell’urlo verrà tutto trattenuto dentro il forziere di cristallo della solitudine esistenziale. E’ il 1953, ma sembra di sentire presente e vicinissima la solitudine e l’incomunicabilità del potere di Cosimo il Vecchio del Pontormo. Un potente che ha sentito il peso della storia come poi Innocenzo X. Ma qui l’uomo rinascimentale, con la sua unitaria statura che troneggia nella gabbia prospettica, deflagra, lasciando il posto all’eco sorda di un urlo che rimbomba e come un buco nero risucchia tutto ciò che vi sta intorno: il pigmento grasso, ogni traccia di forma riconoscibile e finanche la tenuta prospettica dello spazio sono attirate nel gorgo dell’angoscia esistenziale.

Bacon qui denuncia esplicitamente quella “gabbia” euclidea in cui la mente umana è inserita e crea una rappresentazione “non conforme” al contesto fisico in cui viviamo, inducendo intuitivamente l’idea di una sopravvivenza diversa dall’esistere quotidiano, superiore e comunque non barricata dentro a passive categorie esistenzialiste. Viene intuita una realtà non più “costituita da oggetti muti che fronteggiano dei soggetti cartesianamente chiusi in se stessi. […] L’idea ha qualcosa di vertiginoso. Io, in quanto soggetto, non sono più chiuso in una prigione, ma divento un frammento del divenire di tutte le cose.” 3 Appare questa un’idea implicita non solo nel segno chiaramente dinamico di Bacon, ma anche nella ricerca artistica a lui contemporanea, che ‘frammenta’ l’individuo, per poi ricomporlo nel divenire dell’azione pittorica (si pensi ad esempio all’action painting di Pollock).

Un uomo terrorizzato da questa frammentazione, è quello che ci consegna Bacon. Terrorizzato come lui lo era dal confronto diretto con Velázquez, il titano del ‘600 che aveva lasciato al ‘900 un’eredità troppo pesante, e assordante (si veda scheda 5), tanto che ‘l’erede’ non oserà mai vedere dal vivo le opere del maestro. Continuerà ad osservarlo ‘da lontano’, attraverso la distanza di sicurezza, e rassicurante, delle riproduzioni fotografiche. Ma cos’è successo di così orribile all’umanità, tra i due dipinti, perché Bacon, a solo tre secoli di distanza dalla rappresentazione altera e inossidabile del potere del grande seicentista – un attimo sull’orologio dell’evoluzione – concepisca di rappresentarla sotto queste spoglie lacerate e lancinanti? “L’antropologo del 3000 che, dopo la grande catastrofe, reperisse solo questi due dipinti, con le rispettive date, sarebbe legittimato a supporre tragedie e torture antropologiche, le più terribili.” 4

In effetti nello scorrere del tempo, dal Sacco di Roma (1527) ad Auschwitz, il sogno del Rinascimento si è sempre più scontrato con l’efferata crudeltà della storia, infrangendosi e riducendo lo statuario, integro corpo umano ad un ammasso informe. Sopravvivono solo alcuni fissi tratti consegnati alla storia (tanto che sembra risolutiva ora per riconoscerli la teoria fisiognomica settecentesca dei “tratti fissi” del volto, elaborata da Lavater): la bocca sbarrata e gli occhiali a pince-nez, anche quelli ormai inseparabile parte del volto, sembrano fermati sul naso del papa dalla cinepresa di Eizenstein, mostrando l’ultimo tentativo di rivolta dell’uomo al suo destino di dissolvimento totale. Un destino fatto però anche “di campiture aranciate mutuate dal lussuoso e voluttuoso Matisse, di coriandoli di luce degni del lucido Degas, di una materia vibrante di croma per il quale non è irriverente citare il nome proprio del suo ispiratore, Velázquez”. 5

Un destino, quello della pittura, che, con quest’ ultimo segno, sembra trovare ancora una possibilità di salvezza, come aveva vaticinato Dostoevskij, proprio nella bellezza che vi si affaccia.

L’arte contemporanea ha deciso poi di sfidare questa rassicurante speranza, che risponde sempre a una logica finalistica, di controllo e di ordine delle cose, se così si può dire, gettandosi a capo fitto nei territori del Caòs, laddove non vi sono direzioni predeterminate, aprendo lo spazio delle infinite domande, che richiedono altrettante infinite risposte. E tra queste non possono mancare il Kitsch, la bruttezza, la Vanitas, che, seppur in un senso totalmente controintuitivo – ma siamo appunto nell’universo del caos – possono anch’essi a loro modo corrispondere allo stesso bisogno di salvezza. M

Note bibliografiche:

Nota 1: Caroli F., La Pittura Contemporanea, p.60.

Nota 2: per il tema delle bocche urlanti rimandiamo a Caroli, Storia della Fisiognomica, Electa, Milano, 2002.

Nota 3: Manzotti R., ibid., pp.394-395; si consideri anche il senso evocativo della visione di Eraclito.

Nota 4: Caroli F., Storia dellaFisiognomica, p.248.

Nota 5: Caroli F., Storia dellaFisiognomica, p.252.