Il genius loci, un percorso di intuizione e percezione

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Perché l’occhio è finestra dell’anima, ella è sempre in timore di perderlo,/

in modo tale ch’essendoli mossa una cosa dinnanzi che dia spavento a l’omo,/

quello con le mani non soccorre il core, fonte della vita,/

né il capo, ricettaculo del signore de’ sensi, né audito, né odorato, né gusto;/

anzi subito lo spaventato senso non bastando chiudere li occhi …/

vi pone una mano e l’altra distende, facendo antiguardia al cospetto suo.

Leonardo, Codice Atlantico, f.327v

“Oggi tutti sanno che l’arte non ha niente a che vedere con il realismo, anzi, è l’esatto opposto: è volutamente iperbole, esagerazione, distorsione della realtà intesa a procurare alla mente sensazioni piacevoli”¹. Questa definizione di arte, che corrisponde alla visione di Vilayanur Subramanian Ramachandran, uno dei più autorevoli neuroscienziati contemporanei che si occupa di percezione artistica, non può però soddisfare pienamente, così come non può farlo l’antitetica definizione di arte, che insegue una volontà interamente realista. Forse dell’arte sarà per sempre corretto dire soltanto quanto appurato da Dino Formaggio, e in sintesi, che l’arte è “tutto ciò che gli uomini decidono di chiamare arte”.

In compenso la scienza contribuisce presentando modelli estremamente utili a interpretare la realtà, così come l’arte, che è parte di essa. E’ la scienza a informare che scopo della visione è ridurre al minimo i calcoli e i processi (la loro velocità) necessari a compiere una data operazione, sfruttando la ridondanza statistica che esiste in natura. Sempre grazie alla scienza sappiamo che nelle “vie visive” del cervello esistono circuiti neurali preposti, dall’evoluzione, a riconoscere precise forme e colori (oggetti o, per esser più corretti, entità fenomeniche). E’ sempre la scienza che, osservando il campo recettoriale di determinati neuroni rivelatori preposti al riconoscimento di una particolare forma e colore, ci conferma che quando questo campo viene attivato, invia un segnale al sistema limbico (emozionale) che a sua volta genera un messaggio di appagamento, procurato dall’aver decifrato e riconosciuto quella determinata forma-colore. “La visione consiste di questa continua decifrazione degli stimoli ambientali e assomiglia molto più alla risoluzione progressiva di problemi di quanto non pensiamo. L’eccitazione e l’attenzione stimolano il sistema limbico. A mano a mano che l’occhio è attirato da entità parziali simili a oggetti si registrano degli «Ecco!» a ogni stadio della gerarchia visiva. Che cosa cercano di fare un pittore o uno scultore?

Cercano di generare più «Ecco!» possibili in più aree della visione possibili, stimolandole con quadri e sculture più di quanto non avrebbero fatto la vista di scene naturali o immagini realistiche”².

Tutto ciò è dovuto alla fisiologia del nostro sistema percettivo, a partire dall’occhio. Nel corso dell’evoluzione l’occhio è stato reinventato più volte. Si contano almeno sette casi in cui la selezione naturale ha prodotto un tipo di occhio analogo a quello dei vertebrati, cioè il nostro (molto diverso ad esempio da quello a mosaico degli insetti).

Nel ‘900 la teoria della Gestalt stabilirà che la verità visiva non è da confondere con la verità fotografica o con l’immagine retinica. “In questa luce la prospettiva viene considerata semplicemente un mezzo tecnico, come altri, per contribuire a dare l’illusione della realtà. La percezione consiste nell’afferrare certe caratteristiche salienti dell’oggetto che contengono l’informazione sulla sua struttura, piuttosto che sulla sua completezza o esattezza”³.

La Kreuzkirche a Dresda - Bellotto (1765), Gemulde Galerie, Dresda

La Kreuzkirche a Dresda – Bellotto (1765), Gemulde Galerie, Dresda

Tanto che la percezione si pone, secondo i costruttivisti⁴, come un’ipotesi della realtà, creata dalla mente. “La Gestalt studia la forma in quanto tale e la pone nel punto d’intersezione tra l’arte e il mondo, tra soggetto e oggetto. Il problema della forma, nella Gestalt, s’intreccia col problema dell’unità: ogni forma definisce un’unità e ogni unità ha una forma”⁵. Il che suggerisce situazioni particolari in cui elementi distinti diventano parte di un intero. Situazioni che il pittore ha ben presenti: basta pensare alle diverse pennellate che sono ciascuna un’unità e diventano, grazie alla percezione, parti di un intero. Un processo che l’arte affina sempre più, fino a portare alla conquista cubista.

In questo solco si pone Bellotto, che, grazie proprio all’assemblaggio delle varie parti, cioè delle immagini parziali riprese con l’utilizzo della camera ottica, riesce a creare un intero, la veduta. Ma questo meccanismo viene portato a un tale grado di consapevolezza che Bellotto potrà spingersi ben oltre, e riconoscere alle varie unità valore autonomo, ognuna dotata di un proprio significato.

Grazie alla ricomposizione empirica di queste “micro-vedute”, ciascuna connotata da una propria identità, attraverso le “prospettive parziali” della veduta⁶, sembra svelarsi il mistero del genius loci, che poi apparirà manifesto proprio col processo di ricomposizione totale.

Processo che sembra anticipare intuitivamente quello percettivo così come viene delineato dalle neuroscienze: “nell’occhio esistono meccanismi e strutture con la funzione di estrarre dall’immagine la posizione e l’orientamento delle linee interne all’immagine. Si tratta di linee relative alla proiezione bidimensionale sulla retina (come le linee prospettiche sul vetro della camera ottica) e non di linee nell’ambiente. Sarà compito degli stadi successivi di elaborazione utilizzare queste elaborazioni primarie per arrivare alle linee ambientali”⁷, esattamente come in Bellotto il processo di ricomposizione in un’unica veduta.

Un altro elemento da tener presente è il fattore della distanza, un’ulteriore componente della percezione del mondo, fondamentale per i pittori di paesaggio. Ancora una volta troviamo Leonardo come iniziatore dello studio sistematico ed empirico dell’effetto della distanza sulla forma e sul colore. Nei suoi quadri possiamo osservare per la prima volta le alterazioni che subiscono le forme e i colori quando derivano dalla diretta osservazione del mondo. Con il Vedutismo si porterà ai massimi livelli questa volontà di riscontro empirico ‘sulla natura’ e si scoprirà che la distanza non è solo un fatto di prospettiva e dimensione, ma un elemento che traduce la realtà in una nuova dimensione: ad esempio le forme si uniscono a costituire nuove forme, i colori si aggregano a dare nuovi colori (similmente al processo messo in atto dalla pittura puntinista, si veda per confronti il saggio n.3). “La distanza, in modo semplice e quotidiano, ci mostra la dipendenza tra la realtà e l’osservatore”⁸.

Con la progressiva introduzione di strumenti tecnici, dalla camera lucida alla camera obscura, pensati per aiutare disegnatori e pittori a tradurre in termini prospettici l’ambiente intorno a loro, gli artisti più sensibili si rendono però presto conto dei limiti meccanici connessi a tali strumenti. Sarà proprio la volontà di superarli, a dar vita a creazioni artistiche mirabili e suggestive, che da semplice copia meccanica del visibile, come sembravano destinate a rimanere, si troveranno ad essere la base di partenza per indagare ancor più in profondità la realtà umana.

Saranno personalità come Canaletto, Guardi e soprattutto Bellotto a portare a questi nuovi, inaspettati esiti l’arte del ‘700. Il secolo successivo si interrogherà nuovamente sulla scelta tra una riproduzione fedele o una soggettiva del dato visibile (in realtà è un tema che l’arte affronterà sempre durante tutta la sua evoluzione in Occidente, e che passerà sotto il nome di mìmesis): al Realismo e all’invenzione della fotografia, che vorranno rispondere alla prima istanza, controbatterà il soggettivismo estremo (o ‘fenomenismo’) di artisti come Monet (cioè l’Impressionismo), Seurat (e il Puntinismo), Cezanne e Van Gogh.

Particolari di "la Kreuzkirche a Dresda - Bellotto" (1765), Gemulde Galerie, Dresda

Particolari di “la Kreuzkirche a Dresda – Bellotto” (1765), Gemulde Galerie, Dresda

Analisi iconografica e iconologica

Anche nel caso dell’analisi dell’opera di Bellotto (1721-1780), nipote di Canaletto, l’approccio ermeneutico sembra il più adatto a interpretare una dinamica per parti che vengono ricongiunte in unità. In questo caso non si tratta del percorso metafisico delle Idee (come nella Stanza della Segnatura, si veda il saggio n.2) ma di quello empirico della poiesis artistica di Bellotto. Attraverso una ricostruzione delle prospettive parziali, si ripropongono le immagini raccolte dall’artista grazie all’uso della camera ottica, immagini ‘base’ che venivano poi ricomposte in atelier per dar vita all’immagine unitaria, la veduta, appunto. La veduta corrisponde quindi al risultato dell’elaborazione additiva, ovvero una somma “intuitiva” delle varie parti, non aritmetica né sintetica come quella che genererà invece la rappresentazione di Cezanne o del Cubismo (come vedremo in prossimi saggi dedicati alle due ricerche).

Si segue poi il percorso inverso, partendo dall’immagine generale, per arrivare a quella particolare, alla ricerca della volontà artistica che guida la ricerca del pittore. L’unione di questi due percorsi interpretativi, il primo deduttivo, e il secondo induttivo (che corrispondono essenzialmente alla lettura iconografica e a quella iconologica), portano a un risultato non raggiungibile in altro modo: l’identificazione di quello che si è voluto definire genius loci, “archetipo della natura”.

Alla base di questo metodo vi è la prospettiva, il segno elementare della semantica del “linguaggio empatico” di Bellotto, la parola con cui il pittore parla con la natura⁹. Ma se la prospettiva non è un momento rientrante nell’ordine dei “valori artistici”, è tuttavia una di quelle “forme simboliche” (per usare un termine coniato da Cassirer) attraverso le quali “un particolare contenuto spirituale viene connesso a un concreto segno sensibile e intimamente identificato con questo” ¹⁰.

Per Ernst Cassirer la sfera simbolica rappresenta il luogo, tipicamente umano, dove le determinazioni dell’ambiente, che si esercitano sul soggetto conoscente sotto forma di ‘impressioni’ trovano le vie di una elaborazione che culmina con la funzione espressiva. Lo spazio è in primo luogo la forma e l’oggetto della nostra percezione immediata della realtà, e in quanto spazio fisiologicamente percepito non ha ancora un valore simbolico, ma è il prodotto dei diversi organi sensoriali, della loro funzione cinestetica.

Ben diversa la nozione di spazio matematico; il principio dell’omogeneità assoluta dei punti spaziali cancella ogni differenza. Da cui deriva che la costruzione prospettica esatta astrae dalla struttura dello spazio psico-fisiologico, e suo fine è trasformarlo nello spazio omogeneo matematico. Tuttavia prescinde dal fatto che noi non guardiamo con un occhio fisso, bensì con due occhi in continuo movimento, e che ciò conferisce al campo visivo una forma “sferoide”. Lo spazio matematico non considera l’enorme differenza tra l’immagine visiva, psicologicamente condizionata, e l’immagine retinica¹¹.

Pierre Francastel considera la genesi della nozione umana di spazialità, riconoscendo tre livelli della rappresentazione dello spazio: “topologica, proiettiva e prospettica”, come possibilità che la storia dell’arte ha già visto incarnate¹². Egli è inoltre convinto assertore della “necessità di utilizzare i risultati di molteplici discipline, dalla matematica topologica alla psicologia genetica, dall’antropologia all’etnografia, dalla storia delle scienze al teatro, al fine di cogliere pienamente il significato non mimetico né simbolico, ma semantico, dello spazio figurativo”¹³.

Tornando a Bellotto, egli ha saputo creare nel linguaggio figurativo un’analoga sensibilità ambientale del contemporaneo Antonio Casalino, artista lombardo, che cala in rappresentazioni ambientali “empaticamente” realiste (ricche di suggestioni evocative, ma in direzione opposta all’iperrealismo) “il profondo respiro del visibile”.

“Noi siamo esseri situati e incarnati all’interno di un certo continuum spazio-temporale-storico-culturale. L’essere umano in totale isolamento non è un essere umano. L’anima umana è partecipe dell’anima mundi”¹⁴. In ambito filosofico la tematica della percezione situata, dell’esserci nel mondo (il Dasein), è stata trattata in particolare dall’esistenzialismo di Merleau-Ponty e dalla fenomenologia di Husserl.

L’esserci è legato anche all’idea di presence, un termine anglosassone di recente conio che indica la coscienza di trovarsi in un certo ambiente. L’arte di Bellotto (nello specifico, ma anche l’arte in generale) mostra l’ambiente degli esseri umani: non l’ambiente fisico, ma l’ambiente reale, percepito ed esperito.

Attraverso il metodo messo a punto da Bellotto si potranno rintracciare quelle “modalità con le quali l’uomo vive nel mondo”, di cui parla la metafisica di Merleau-Ponty, ovvero le forme stesse che uniscono l’uomo al suo ambiente: quelle modalità che debbono essere ricondotte “all’esperienza originaria” che egli rintraccia nella percezione (svilupperemo il tema in un prossimo saggio che tratterà l’idea di archetipo nell’arte).

Come dire che, a dispetto di ogni soggettivismo, quando s’incontra il genius loci, quando lo si percepisce, si è calati in una dimensione “cosmica” che unisce ciascun uomo ad ogni altro uomo (diremmo di più, ciascun essere a ogni altro essere) che sia immerso nella stessa realtà ambientale. L’arte del Settecento l’ha detto attraverso l’opera di Bellotto, la scienza contemporanea attraverso la rivelazione dei neuroni specchio (il tema dello specchio è stato affrontato anche nel saggio n.5, cui rimandiamo per un confronto aperto).

Note bibliografiche

1) Ramachandran V.S., Che cosa sappiamo della mente, Mondadori, Milano, 2006, p.45.
2) Ramachandran, ibid., p.52-53.
3) Manzotti R., Psicologia della percezione artistica, p.135.
4) pensiamo al filosofo Daniel Dennett, con il suo saggio Consciousness Explained, 1991.
5) Manzotti, ibid., p.135.
6) questa l’analisi presente nella mia tesi Bernardo Bellotto, interprete del Genius Loci, Politecnico di Milano, 2006.
7) Manzotti, ibid., p.137.
8) Manzotti, ibid., p.163.
9) Colui che ha contribuito maggiormente a delinearne il potenziale espressivo è Erwin Panofsky. Panofsky ci dice che già gli Antichi misero a punto un loro sistema prospettico, una prospettiva “curva” che corrisponde alla nozione classica dello spazio come entità discontinua, luogo di conflitto tra i corpi e il vuoto, così come la prospettiva piana è in rapporto con la concezione moderna di uno spazio infinito, omogeneo, vera “sostanza estesa”. Già per Alois Riegl (1858-1905), nella storia dell’arte vi è un’evoluzione dall’antica nozione oggettivistica della realtà, tipica dell’arte egiziana, come starebbero a dimostrare l’assoluta planimetria e frontalità, verso la nozione moderna di uno spazio soggettivo, nel quale va ad armonizzarsi il contrasto tra gli oggetti singoli e l’ambiente atmosferico. È Riegl, infatti, che ha fondato la cosiddetta “scuola tedesca” dell’arte, da cui proviene anche Erwin Panofsky, e ha rivoluzionato la moderna storiografia grazie alla fondamentale introduzione della relativizzazione delle intenzionalità artistiche. Un riferimento che ha permesso alla storia dell’arte di seppellire per sempre l’ideale classicistico di bellezza, ed evitare sia l’estetica visibilista sia una concezione dell’arte come intuizione individuale, che comportavano giudizi estetici sulle epoche e gli stili, limitandosi invece a rilevare la direzione del volere artistico implicito nell’opera di ciascun artista. E’ per questo che s’intende in questo saggio citare esplicitamente l’intenzionalità artistica quale riferimento dell’analisi iconologica: non perché questa vi trovi completa espressione, ma come primo riferimento, premessa necessaria, e mandato da cui partire per avviare una corretta analisi semantica dell’opera.
10) Panofsky E., La prospettiva “come forma simbolica”, Feltrinelli, Milano, 1961-2001, p.50.
11) Panofsky E., ibid., pp.40-41.
12) Francastel P., Espace génétique et espace plastique, “Revue d’Esthétique”, ott-dic 1948, pp.349 e sgg.
13) Francastel P., ibid., p.130.
14) Manzotti R., ibid., p.269.