Archetipi

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L’uomo non è solo un animale razionale,

egli è e resta un animale mitico.

                                                               Ernst Cassirer

“Il XX secolo ha sviluppato una tecnica del pensiero mitico senza precedenti nella storia passata; da allora in poi i miti sono stati fabbricati nello stesso modo che le mitragliatrici o gli aeroplani”. In questo modo Ernst Cassirer afferma il persistere dell’importanza del mito e dell’archetipo nella società contemporanea. ¹

Secondo il filosofo tedesco non vi è alcuna soluzione di continuità reale che separa il pensiero primitivo, mitico e il moderno pensiero razionale, anzi, tale separazione sarebbe un’illusione della civiltà contemporanea, che ha contribuito al ritorno del pensiero mitico e a favorire l’affermarsi dei miti politici moderni. ²

 Primo a cogliere questo inganno è l’artista, in quanto delegato dall’umanità a sintetizzarne storicamente i valori mediante il linguaggio archetipico. Gli archetipi si pongono così come una irrinunciabile opportunità epistemologica e cognitiva per capire, attraverso l’arte, il rapporto con la natura e con la cultura. Lo stesso termine archetipo (derivato dal greco antico ὰρχέτῦπος col significato di immaginetipos  = modello e arché = originale), rinvia in effetti alla forma preesistente e primitiva di un pensiero (ad esempio l’idea platonica è archetipica).

Senza entrare nella questione di cosa si intenda per immagine evocativa emozionale e archetipica (o emotivo-archetipica), che porta già a una prima importante distinzione all’interno dell’immagine simbolica, e volendoci soffermare invece in questa sede solo sull’immagine archetipica, è utile riprendere l’affermazione della Ottonello, sensibile psicanalista junghiana: “la funzione simbolica è entrata a far parte integrante del corredo genetico umano”³. La funzione simbolica è quindi una facoltà di produzione mentale ormai acquisita geneticamente.

Ma il XX secolo è anche il secolo della relatività, e sappiamo quanto questo concetto abbia influito sulla cultura contemporanea, tanto che l’arte ne deriverà una poetica autonoma e fondamentale per tutto il ‘900: il cubismo. La funzione simbolica si deve scontrare anche con questa nuova conquista, e subito dopo si scopre che la forma simbolica più atta a dialogarvi è quella dell’archetipo. L’archetipo è infatti, nel senso interpretativo di Carl G. Jung, una forma simbolica intrinsecamente connotata dalla idea di sincronicità; idea, quest’ultima, che trova un diretto corrispondente nella teoria della relatività.

Per tracciare il percorso che porta l’archetipo a essere una delle forme simboliche dalle quali la nostra cultura attinge maggiore significato, dobbiamo estendere il campo di analisi non solo alla teoria psicanalitica, ma a quella fisiognomica, essenziale per comprendere la prima e i meccanismi che ne derivano proiettandosi nell’ambito dell’arte.⁴ Partiamo quindi dalla psicoanalisi per prendere in esame la dinamica alla base dell’esperienza estetica e i risvolti psicologici dell’esperienza artistica.

Per affrontare queste tematiche sono necessarie due dimensioni fondamentali e correlate: la dimensione storico-artistica e quella neurale cognitiva (derivata dalla neuro-estetica, dalla psicologia della percezione e dalle scienze cognitive).⁵

A questo punto si può parlare di psicologia della percezione artistica,  come strumento che si presenta adeguato a comprendere le modalità di creazione e fruizione dell’evento artistico. E l’arte, per le sue caratteristiche intrinseche di medium tra soggetto e oggetto, si presenta come un momento unico di questa relazione (di analisi e sintesi, ad esempio, se ci riportiamo al cubismo) tra mondo esterno e noi stessi.

Soggetto e oggetto, dunque, si presentano quali termini risolutivi di base per comprendere l’arte. Lo studio scientifico del soggetto si deve all’opera pionieristica di Wilhelm Wundt in Germania, e William James negli Stati Uniti ⁶, il quale pone il termine “psicologia” come “studio scientifico della psiche”. La capacità fondamentale del soggetto è quella di essere dotato della capacità di fare esperienza, in grado cioè di rapportarsi col mondo esterno, col proprio corpo e con la propria interiorità.  Una capacità derivante da altre caratteristiche, tra cui la coscienza fenomenica, l’intenzionalità e la semantica.⁷

L’oggetto (ovvero la rappresentazione artistica), perché possa essere elemento della percezione, deve trovare posto nel mondo, essere contestualizzato. Nel caso dell’arte questo processo di contestualizzazione vuol dire porla in relazione al pensiero coevo. In effetti è il primo compito che si pone la disciplina storico-artistica, quando colloca l’opera di un autore nella sua corretta luce: sarebbe totalmente incomprensibile l’arte di Caravaggio senza porla in relazione col pensiero Borromaico e di Galileo, così come quella di Michelangelo senza il neoplatonismo di Pico della Mirandola, o ancora, l’opera dei Surrealisti senza la chiave interpretativa di Freud (anche se in realtà il padre della psicanalisi ne detestava neanche troppo amabilmente l’opera).

Quando all’inizio del XX secolo si affermano, da una parte e dall’altra dell’oceano, le due scuole della Psicanalisi e del Comportamentismo, anche il rapporto tra soggetto e oggetto subirà una sostanziale evoluzione. Vediamo la Psicanalisi attecchire e crescere in seno a una società borghese europea che sentiva come prioritari i bisogni dell’individuo; era interessata all’analisi simbolica dei contenuti della psiche, grazie alle categorie interconnesse di conscio, subconscio (o preconscio) e  inconscio da una parte, e super-io, io, ed Es dall’altra.

Il Comportamentismo invece, nato negli Stati Uniti nell’ottica di un’implementazione dei processi produttivi, si proponeva come uno studio sistematico per nulla interessato ai processi interiori, ma a registrare, monitorare e migliorare i rapporti tra un sistema e un altro (a partire da quello meccanico-industriale della catena di montaggio e quello umano della forza lavoro).

Non si può non partire da queste due scuole per comprendere la prospettiva d’indagine della natura del soggetto da cui muovono le attuali neuroscienze e scienze cognitive: se le prime studiano direttamente le strutture nervose coinvolte nell’attività mentale, le seconde forniscono modelli computazionali dei vari processi mentali.⁸

I presupposti di partenza sono quindi eterogenei e difficilmente compatibili, il che comporta che il primo riferimento obbligato delle ricerche, il soggetto, si presenti ancora in gran parte ignoto e da indagare attraverso approcci complementari e coerenti.

In quanto poi in rapporto di dipendenza col soggetto, il medesimo problema sussiste anche per l’oggetto. Infatti esso assume corpo solo quando entra in relazione con il soggetto, e in base alla prospettiva da cui egli lo osserva: se infatti l’oggetto viene analizzato attraverso gli strumenti della scienza, esso presenterà una sua peculiare struttura, che potrà essere fisica o chimica; se riconosciuto dai sensi, attraverso sensazioni e percezioni immediate, si presenterà il caso di un oggetto fenomenico; quando percepito attraverso dati fenomenici che si ripresentano “a distanza di tempo” (cioè sensazioni e percezioni memorizzate), come nel caso del sogno, si manifesterà un oggetto percepito, in quanto colto dalla nostra mente ma non dalla percezione immediata.

Ma, anche se sembra paradossale, è solo quest’ultima categoria di oggetti a permettere, attraverso le sensazioni memorizzate, di percepire il mondo fenomenico come mondo reale. Abbiamo così considerato solo alcune tra le molte categorie di oggetti, ma sufficienti a mostrare le diverse modalità che entrano in gioco nella dinamica percettiva del soggetto. “Basta infatti entrare nel campo dell’esperienza artistica e si appalesa subito una varietà molto maggiore di tipi possibili di oggetto: da quello simbolico, a quello metafisico, a quello ontologico, a quello derivato da una ricerca epistemica, sono tutti oggetti regolarmente rappresentati o fruiti attraverso l’arte.”⁹

E’ infatti all’arte che bisogna infine guardare per scoprire i territori in cui l’archetipo dà vita alla più ampia messe di significati, in gran parte ancora inesplorati. Se infatti la teoria psicanalitica freudiana troverà nel movimento surrealista una prima importantissima rielaborazione in campo artistico, e lascerà alle future ricerche la preziosissima eredità del simbolo onirico, sarà invece con la teoria junghiana delle figure simbolico-archetipiche, che si apriranno i più ampi e inaspettati orizzonti per l’arte. Soprattutto per vedere gli archetipi “nella loro oggettività, cioè nella loro valenza di operatori mentali connaturati”.¹⁰

Quando le culture evolvono in base alla capacità di astrazione dei loro componenti, “l’astrazione è in grado di creare significati estesi tanto più forti quanto più essi dimostrano la loro origine necessitante il destino biologico e intellettuale dell’homo sapiens. La possibilità culturale evoluta di distinguere tali significati (estesi, metaforici, ideali, artistici), poterli ricreare o leggere nell’arte, è ciò che può esser definito percetto”.¹¹

A partire dalla pittura negra, un’immagine archetipica primaria si è insediata nella cultura artistica del XX secolo, grazie alla traccia che il nostro passato evolutivo ha saputo imprimere nella storia. La scelta di immagini derivate dalla pittura negra da parte degli artisti del primo novecento (dai cubisti, agli espressionisti, ai surrealisti) corrisponde a una precisa azione linguistica: il trasferimento consapevole di un segno da una cultura (primitiva) a un’altra (civilizzata). Ciò che fa di quel segno un archetipo, e non un significante qualunque con un suo significato correlato, è l’ambito cui appartiene il suo contenuto: un ambito che non è culturale, ma naturale (cioè facente parte del genoma, del patrimonio genetico umano). Lo stesso discorso vale per uno dei tòpoi più percorsi dell’arte: la maschera. Una forma archetipica che non a caso si presenta ricorrente nei momenti di crisi sociale (intesa come cambiamento, svolta epocale), quando appunto i rizomi culturali non reggono più e vengono soppiantati da quelli naturali. Uno per tutti, il fatidico 1888, in cui la maschera fa la sua apparizione contemporaneamente nella pittura di tutta Europa: dalle tele di Edvard Munch, a quelle di James Ensor,  ai quadri di Vincent Van Gogh, prende forma il volto del secolo a venire.

Portrait and a dream - Jackson Pollock (1953)

Portrait and a dream – Jackson Pollock (1953)

Analisi iconografica e iconologica 

Pollock con l’action painting presenta al mondo un metodo d’indagine intuitivo che permette di raggiungere un grado di conoscenza interiore ancora inesplorato, anche grazie a una attenta e precisa dinamica sensoriale. Benché le biografie riportate dell’artista si soffermino spesso a rilevare il suo abuso di sostanze psicotrope¹², inducendo a pensare a una fuga nell’oblio dell’esistenza, in realtà pochi artisti denunciano un tanto vivo e lucido attaccamento all’esperienza vitale, quanto Jackson Pollock attraverso l’esperienza dell’arte.

Osserviamo uno qualunque dei suoi “dipinti in azione”. Lui lì, in piedi sulla tela – una posizione consueta per gli artisti orientali, ma che per un artista occidentale quale egli è, implica invece un’entrata intenzionale nella dimensione (euclidea) dello spazio pittorico – e il colore che vi cola sopra. Ecco che lo spazio che si presenta allora ai nostri occhi non solo diventa “controllato”, ma totalmente “dominato” dall’artista. Ecco che un solo gesto riporta immediatamente presente l’affermazione di Wassily Kandinsky: “la forma è l’espressione esterna del contenuto interno  […] il mezzo espressivo della risonanza interiore.”¹³

Il segno liquido diventa la parola di un linguaggio compatto e unitario, in cui il colore e la forma sono fusi insieme inscindibilmente. L’universo sensibile (e visibile) è tutto lì. Quando appare qualche altra forma riconoscibile, questa appartiene inequivocabilmente ad un altro universo, al mondo del simbolo, a quello onirico o archetipico-ancestrale. Questo il caso di Portrait and a dream, del 1953.

Non stupisce ritrovare in Pollock il simbolo onirico, è infatti conosciuta la sua vicinanza alla psicologia junghiana, e, per questa ragione, ancor più quello archetipico, in particolare quello legato alla sua cultura nativa del Wyoming. Ciò che stupisce è invece rintracciare nella sua opera una parvenza fisiognomica, cosa che all’epoca del dipinto fu infatti aspramente criticata e portò Pollock a non esporre più in pubblico opere del suo ultimo periodo. Una fase artistica quella, per Pollock, fondamentale e forse la più aperta al futuro (possiamo dirlo con la distanza della storia), che pone questioni e scioglie nodi esistenziali ineludibili. Qual è il ritratto? E quale il sogno? Domande (faziosamente e ferocemente avanzate dalla critica del tempo) giustificate da una consuetudine a riconoscere ciò che si conosce già. Ma Pollock, grazie alla padronanza del simbolo archetipico, ci dice appunto che il sogno, il simbolo onirico, lo conosciamo già; è l’io, il ritratto, che ci sfugge. Così arriva, con chiarezza adamantina, la risposta: “ritratto”, a sinistra, e a destra, seguendo il consueto e rassicurante senso di lettura occidentale, “un sogno”.¹⁴ Tutto già scritto nel titolo, dunque; ma si sa che la semantica non suona a tutti familiare, soprattutto quando a un indizio certo fa corrispondere un senso tutt’altro che rassicurante.

Quando Merleau-Ponty dice che l’uomo è naturalmente portato a “dimenticare la sua dimensione d’essere”¹⁵, egli tende a chiarire le operazioni concrete che il soggetto nel mondo compie partendo dalla percezione. Le teorie vengono costruite dall’uomo concreto sulla base di ciò che veramente esperimenta, ma poi l’uomo si dimentica delle operazioni che compie, e confonde le teorie che costruisce con la realtà originaria da cui è partito per costruire le teorie. Perciò Merleau-Ponty si sforza di ricondurre le scienze alle operazioni originarie che l’uomo è portato a dimenticare. “Si tratta di riscoprire queste operazioni e di seguire la loro struttura (che è ciò che io veramente percepisco, e non corrisponde a nessuno degli organi di senso separati ma a tutto il modo di sentire, di vivere, d’impegnarsi dell’uomo) per comprenderne le caratteristiche e l’interno dinamismo”.¹⁶

Con l’action painting Pollock offre una risposta immediata (le tesi del filosofo francese datano 1945) e geniale alle questioni poste da Merleau-Ponty. Attraverso l’azione e il dripping, Pollock dà vita alle ‘operazioni concrete originarie’ cercate dal filosofo, le solidifica in un pigmento che “tiene memoria” di tutte le teorie sviluppate, e le pone direttamente davanti agli occhi dell’uomo, che così non può ‘dimenticarle’, ma è chiamato a percepirle sensorialmente (non, si noti, a intenderle razionalmente e interpretarle astrattamente). E con ciò svela anche la struttura profonda di tali operazioni: ne è monito il ritratto, che porta appunto il segno di quelle ‘operazioni concrete originarie’, mentre il sogno si presenta come un’astrazione simbolica, segno appunto delle teorie astratte. “Con l’action painting – scrive Caroli – viene scavalcata con un colpo di genio l’incistita ed equivoca distinzione tra pittura astratta e pittura figurativa; e l’oscura volontà di esprimersi dell’uomo contemporaneo si identifica con una furibonda concatenazione di gesti, che riflettono, in momenti di mostruosa concentrazione, la sterminata insensatezza delle nostre movenze terrene. Questa è la vera scrittura automatica pensata dai Surrealisti. Questo è il cortocircuito tra l’essere totale di un artista e un’opera che è la trascrizione vertiginosa, assurda e sublime di tutto quell’essere”.¹⁷

Vi è poi un’ulteriore direzione di senso che la rappresentazione di Pollock sembra indicare, se consideriamo un’interessante teoria attuale riguardante il sogno visto come una forma di percezione rimandata nel tempo. “Per quanto possa sembrare controintuitivo – scrive il filosofo Riccardo Manzotti – noi suggeriamo che, quando sogniamo, non facciamo esperienza di un’immagine di un certo evento, ma dell’evento reale, in modo temporalmente ritardato rispetto alla percezione normale.”¹⁸

Per comprendere questo meccanismo possiamo ricorrere ancora una volta alla figura dello specchio, una figura simbolica intrinsecamente legata al sogno. Entrambi, specchio e sogno, rimandano infatti ad una ‘dimensione altra’, e in questa ‘dimensione altra’ può prendere avvio la dinamica percettiva legata allo specchio. Sarà proprio grazie a questa dinamica percettiva che si offrirà anche una nuova possibilità di interpretazione del fenomeno onirico.

Nella visione attraverso lo specchio percepiamo cose che non potremmo vedere da quella data posizione (siamo causalmente continui con fenomeni che altrimenti sarebbero separati da noi), ma viene introdotto nella dinamica percettiva anche un piccolissimo ‘ritardo’. Immaginiamo quindi una serie di specchi, ciascuno dei quali comporta un breve ritardo rispetto alla percezione dell’immagine iniziale. Alla fine ci accorgeremmo di questo ritardo, sarebbe un ritardo ‘sensibile’, eppure derivato da un processo fisico diretto. Manzotti suggerisce che il sogno sia un processo analogo: “quando dormiamo l’ambiente prossimo cessa di essere la causa dei processi del nostro cervello. Tuttavia il nostro cervello continua a essere il risultato del nostro passato, di cause pregresse che l’hanno plasmato, cause che erano nel mondo esterno. A differenza della percezione normale, in cui la coerenza degli eventi è garantita dallo stretto accoppiamento con l’ambiente prossimo, durante il sogno tale coerenza non ha motivo di essere rispettata.”¹⁹

E’ ciò che vediamo ora apparire di fronte a noi guardando l’opera di Pollock: il soggetto e l’oggetto della percezione, il ritratto e il sogno, possono finalmente ritrovarsi in uno stesso spazio, consacrato loro dall’arte.

Note bibliografiche

Nota 1: in Symbol, Myth and Culture, Londra 1979, trad. it. “La tecnica dei nostri miti politici moderni”, in Mito, simbolo, cultura, Laterza, Bari 1981, p. 250.

Nota 2: Cassirer sostiene questa tesi contestando quella di Lévy-Bruhl, e prenderà le distanze dall’antropologo anche in An Essay on a Man – An Introduction to a Phylosophy of Human Culture (New Haven 1951), trad.it. Saggio sull’uomo, Armando, Roma 1971, p. 79, opponendo alla teoria della mentalità pre-logica dei primitivi quella, sostenuta da Malinowski, secondo la quale anche l’uomo primitivo sarebbe stato in grado di distinguere tra la sfera mistica e quella empirica, cfr. E. Cassirer, Il mito dello Stato, Longanesi, Milano 1996, pp. 97 e 470. In particolare afferma: ”Se il mito è un fenomeno circoscritto all’attività di un pensiero pre-logico, come ha potuto attecchire nelle menti dei colti, razionali, uomini moderni, e come il pensiero mitico moderno può essere stato prodotto da uomini che non avevano proprio nulla di primitivo, ma che anzi erano pensatori risoluti e freddi, ed eccellenti calcolatori? La spiegazione non può risiedere nel considerare questo ritorno del pensiero mitico come “un caso di atavismo. (…) Un caso di atavismo è per definizione l’eccezione, non la regola.”

Nota 3: cfr. Laura Ottonello su www.geagea.com

Nota 4: si deve alla rivoluzionaria e fondamentale opera storico-critica di Flavio Caroli lo studio e l’evoluzione della teoria fisiognomica nella storia dell’arte.

Nota 5: Manzotti R., Psicologia della percezione artistica, Arcipelago Edizioni, Milano, 2007, p.14.

Nota 6: si veda James W., A Pluralistic Universe, The University of Nebraska Press, 1996.

Nota 7: Manzotti R., ibid., p.16.

Nota 8: Manzotti R., ibid., p.18.

Nota 9: Manzotti R., ibid., pp.21-22.

Nota 10: Riccardo Panigada, Marco Marinacci, Il percorso dei sensi e la storia dell’arte, Swan, Milano, 2012, p.66.

Nota 11: R. Panigada, M. Marinacci, ibid., p.27

Nota 12: il tema sarebbe troppo ampio da discutere in questa sede, ma è decisivo della relazione tra scienze cognitivo-                fisicaliste e arte. Basti pensare a tutte le sostanze alteranti la percezione che in tutte le epoche hanno                 assunto, e forse più degli altri, gli artisti – vuoi per “anestetizzare” la marcata sensibilità, vuoi per “allargare”   la percezione – e che ovviamente hanno giocato un ruolo importante nel loro modo di interpretare e     rappresentare il mondo intorno e dentro di sé. Le neuroscienze intendono indagare la percezione, e questa a                sua volta è messa in relazione col linguaggio artistico. Ma una percezione normale è ben diversa da una      alterata, e quest’ultima non può essere considerata, per il principio di ripetibilità, dal metodo empirico. Ma è     proprio quella più tipica di molti artisti e da cui spesso deriva la loro stessa tecnica. Pensiamo a Van Gogh: per               anni si è parlato di una malattia della vista che in pratica gli virava tutti i colori in una tonalità giallognola,                come sotto una lampada al sodio, da cui forse la scelta di certe tinte; e si è cercato di studiarne   scientificamente le ricadute sulla percezione, per creare una “piattaforma oggettiva” da cui partire per             analizzarne l’opera. Ma non si sa se nel dipingere un dato quadro abbia bevuto assenzio, assunto droghe o             altre sostanze psicotrope, o comunque avesse una percezione alterata da qualsiasi altro motivo fisico o                 psichico. Si capisce quale sia il limite delle neuroscienze, che è sempre da tener presente per portare veri                 strumenti all’arte, e non aberrazioni!

Nota 13: Kandinsky W. e F. Marc, Il cavaliere azzurro, SE, Milano, 1965/88.

Nota 14: questa è l’interpretazione sostenuta in primis da Caroli e oggi definitivamente confermata dalla critica                 dell’artista. Si veda Caroli F., Storia della fisiognomica, Electa, Milano, 2002, p.246.

Nota 15: Maurice Merleau-Ponty, Senso e non senso dall’introduzione di Enzo Paci, Garzanti, p.10.

Nota 16: Merleau-Ponty, ibid., p.11.

Nota 17: Caroli, Il volto e l’anima della natura, Mondadori, Milano, 2009, p.99.

Nota 18: Manzotti R., ibid.,  p.294.

Nota 19: Manzotti R., ibid.,  p.295.

Bibliografia di riferimento:

Cassirer E., Simbolo, mito e cultura, Laterza, Bari, 1981