L’angoscia nelle bocche urlanti

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“l’angoscia … gliela aveva fatta conoscere l’amore, l’amore al quale è in qualche modo predestinata, da cui sarà accaparrata, qualificata; ma quando, come per me, entra in noi prima che l’amore abbia fatto la sua comparsa nella nostra vita, essa fluttua nell’attesa, vaga e libera, senza una precisa destinazione, al servizio un giorno di un sentimento, l’indomani di un altro …”.

                                                                                                          Marcel Proust (Dalla parte di Swann)

Se l’angoscia deriva “dall’insicurezza di aver a che fare con ontologie incomprensibili”, quando queste ontologie coincidono col sentimento dell’amore, non possiamo trovare definizione più perfetta di quella che ne dà Proust. Un sentimento, l’angoscia, ineffabile, chiuso in sé, strozzato nell’io. Un moto dell’anima che, quando incontra l’arte, sembra trasformarsi nel suo esatto opposto e trovare la forza di uscire dalla gabbia del corpo, per esplodere infine in un urlo: un grido sordo, inudibile all’udito, ma racchiuso in un’immagine, e nel colore.

Un urlo che darà luogo a motivi iconografici ricorrenti, di tale forza che la storia dell’arte, grazie anche alla teoria fisiognomica sviluppata da Flavio Caroli, riconoscerà come tòpoi tra i più importanti: le bocche urlanti. Tanto da essere destinati ad avere influenze dirette anche su un’arte sempre attenta a captazioni di carattere universale, come è il cinema.

Un urlo che vediamo levarsi per la prima volta dal Guerriero di Leonardo nella Battaglia di Anghiari (1501), per poi dilatarsi in un’eco che, nel XX secolo, diventerà perpetua, grazie appunto a un’arte cinematografica che la reitererà in pellicole indimenticabili come la Corazzata Potëmkin, di Sergei Eizenstein, l’Urlo, di Michelangelo Antonioni, o Angoscia, di George Cukor, per citare solo le derivazioni più immediate.

Ma, a ben guardare, l’entrata nel XX secolo del sentimento dell’angoscia ha una precisa data d’inizio: il 1888. E’ questo il momento in cui si trasforma nell’urlo del mondo, quando “la pittura contemporanea ha piantato i cingoli nei risolutivi, inesplorati territori dell’Espressionismo e della visionarietà.”1 Una notte di luglio di quell’anno, infatti, Van Gogh darà vita a un teatro dell’assurdo, in cui “risuonano le trombe dell’inferno, un suono che può trasformare chi le sente in un ladro, un pazzo o un’assassino”, scrive Van Gogh, accampato in un minuscolo, desolato Caffè di notte. Poco dopo si sentono suonare ancora le trombe, ma questa volta per dare inizio a un carnevale grottesco e lugubre insieme, in cui ai volti si sono sostituite, forse per sempre (almeno così sarà per il primo cubismo e molto espressionismo), le maschere. E’ l’Entrata di Cristo a Bruxelles, di cui appare testimone sbigottito James Ensor, che cerca di ritrarre con i primi colori che trova sulla tavolozza l’incredibile spettacolo cui è chiamato ad assistere. Ancora un lustro e l’umanità vedrà l’urlo lancinante dell’interiorità inespressa lanciato da Munch, condensarsi in un grumo di colori carichi di implicazioni fisiche, che esprimono l’immensa solitudine esistenziale.

Il più famoso e riprodotto grido di angoscia, a ragione, perché asintoto del malessere privato dell’umanità, e padre delle innumerevoli bocche urlanti che l’arte vorrà raffigurare nel XX secolo, tanto lancinante e poderoso da trasformarsi addirittura in un nitrito, innalzato al cielo dal cavallo di Guernica, quando diventerà urlo collettivo, lanciato da un’umanità colpita dagli orrori della guerra.2

Analisi iconografica e iconologica

Anche Francis Bacon, il grande pittore irlandese, padre della componente realista contemporanea, con Papa II, ispirato al ritratto di Innocenzo X di Velázquez, tenterà di lanciare un grido all’umanità. Sarà però un tentativo disperato, e quell’urlo verrà tutto trattenuto dentro il forziere di cristallo della solitudine esistenziale. E’ il  1953, ma sembra di sentire presente e vicinissima la solitudine e l’incomunicabilità del potere di Cosimo il Vecchio del Pontormo. Un potente che ha sentito il peso della storia come poi Innocenzo X. Ma qui l’uomo rinascimentale, con la sua unitaria statura che troneggia nella gabbia prospettica, deflagra, lasciando il posto all’eco sorda di un urlo che rimbomba e come un buco nero risucchia tutto ciò che vi sta intorno: il pigmento grasso, ogni traccia di forma riconoscibile, persino la tenuta prospettica dello spazio, sono attirate nel gorgo dell’angoscia esistenziale.

Papa II - Francis Bacon (1953)

Papa II – Francis Bacon (1953)

Bacon qui denuncia esplicitamente quella “gabbia euclidea” in cui la mente umana è inserita e crea una rappresentazione “non conforme” al contesto fisico in cui viviamo, inducendo intuitivamente l’idea di una sopravvivenza diversa dall’esistere quotidiano, superiore e comunque non barricata dentro a passive categorie esistenzialiste. Viene intuita una realtà non più “costituita da oggetti muti che fronteggiano dei soggetti cartesianamente chiusi in se stessi. […] L’idea ha qualcosa di vertiginoso. Io, in quanto soggetto, non sono più chiuso in una prigione, ma divento un frammento del divenire di tutte le cose.”3 Sembra questa un’idea implicita non solo nel segno chiaramente dinamico di Bacon, ma anche nella ricerca artistica a lui contemporanea, che “frammenta” l’individuo, per poi ricomporlo nel divenire dell’azione pittorica, come accade nel processo creativo dell’action painting di Pollock.

Ma l’uomo di Bacon rimane invece esposto alla frammentazione, e ne è terrorizzato. Atterrito come lui stesso lo era dal confronto diretto con la storia, che ricordava di continuo all’uomo di esserne solo un frammento: ecco allora emergere dalle ombre del passato Velázquez, immenso nel suo titanico involucro del tempo, gonfiato dal secolo dell’aria e della forma, quale è stato il ‘600. Un incontro incalzante a cui Bacon sentirà di essere chiamato, ma che continuerà a sfuggire, perché conscio di non poter sostenere l’integra potenza delle opere del maestro, che infatti non vorrà mai vedere dal vivo. Continuerà ad osservarlo “da lontano”, attraverso quella rassicurante distanza di sicurezza offerta dalle riproduzioni fotografiche. Ma cos’è successo di così orribile all’umanità, tra i due dipinti, perché Bacon, a solo tre secoli di distanza dalla rappresentazione altèra e inossidabile del potere del grande seicentista – un attimo sull’orologio dell’evoluzione – concepisca di rappresentarla sotto queste spoglie lacerate e lancinanti? In effetti, se un antropologo del futuro, “dopo la grande catastrofe, reperisse solo questi due dipinti, con le rispettive date, sarebbe legittimato a supporre tragedie e torture antropologiche, le più terribili”.4

D’altronde, nello scorrere del tempo, dal Sacco di Roma ad Auschwitz, dalle torture dell’Inquisizione alle “cure” per i cosiddetti “folli”, il sogno del Rinascimento si è sempre più scontrato con l’efferata crudeltà della storia, infrangendosi e riducendo lo statuario, integro corpo umano ad un ammasso informe. Di quel sogno – così sarà per Pollock – di quel corpo – così per Bacon – sopravvivono solo alcuni tratti, sempre uguali, consegnati alla storia.

Ma per riconoscerli occorre forse addirittura recuperare la settecentesca teoria fisiognomica dei “tratti fissi” del volto, elaborata da Lavater: ecco allora che la bocca sbarrata e gli occhiali a pince-nez, anche quelli ormai inseparabile parte del volto, sembrano fermati sul volto terribilmente deformato del Papa da un inceppamento della pellicola che scorre nella cinepresa di Eizenstein, mostrando l’ultimo tentativo di rivolta dell’uomo al suo destino di dissolvimento totale.

Un destino fatto però anche “di campiture aranciate mutuate dal lussuoso e voluttuoso Matisse, di coriandoli di luce degni del lucido Degas, di una materia vibrante di croma per il quale non è irriverente citare il nome proprio del suo ispiratore, Velázquez”.5 Un destino che, con quest’ultimo segno, sembra trovare ancora una possibilità di salvezza proprio, come auspicava Dostoevskij, nella bellezza che vi si affaccia.

 

Note bibliografiche:

1) Caroli F., La Pittura Contemporanea, p.60.
2) per il tema delle bocche urlanti rimandiamo a Caroli, Storia della Fisiognomica, Electa, Milano, 2002.
3) Manzotti R., ibid., pp.394-395; si consideri anche il senso evocativo della visione di Eraclito.
4)Caroli F., Storia della Fisiognomica, p.248.
5) Caroli F., Storia della Fisiognomica, p.252.