Breve storia del paesaggio moderno

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Ciò che più sorprende per quanto riguarda la tematica del “pensiero in figura” occidentale è che, per oltre mille anni, vale a dire almeno 40 generazioni, scompare dalla volontà rappresentativa del visibile il paesaggio, ovvero il soggetto che ciascun viaggiatore, qualunque osservatore della natura, chiunque sposti anche per un solo istante la sua attenzione sul proprio esistere sulla Terra, deve per forza immaginare quale suo primo ancoraggio al mondo fisico. Eppure, fino all’elegantissima riproduzione in affresco che ne dà Ambrogio Lorenzetti nella prima metà del XIV secolo sulle pareti del Palazzo Pubblico di Siena, la civiltà occidentale sembra non curarsene.

Gli effetti del buon governo; Ambrogio Lorenzetti

Gli effetti del buon governo; Ambrogio Lorenzetti

Possiamo allora immaginare lontanissime le storie delle Mille e una notte, in quei giardini incantati di Baghdad, dove l’aria delle stelle si mescolava alla freschezza delle fontane, invadendo di fragranze floreali le corti assonnate o animate da romantiche passioni, al chiaro di luna; meno lontani, invece, i racconti dei marinai, che toccando le nostre coste narravano di tempeste e maremoti, scogli acuminati come denti e desertici litorali, senza riparo né accoglienza. E, infatti, se pensiamo ai racconti omerici, tutti i particolari paesaggistici e naturalistici, o hanno un che di sovrannaturale, o ancor più spesso semplicemente di innaturale (le pecore dalla lana color verde, e mille altri particolari che hanno consolidato il mito dell’aedo cieco).

In effetti poi, quando la civiltà occidentale si sentirà davvero padrona del mondo e della sua natura, la prima conquista del visibile che avrà carattere sovranazionale e interculturale, e una formalizzazione della conoscenza di ordine proto-enciclopedico così acquisita, si chiamerà Grand Tour, ovvero il viaggio alla scoperta del Mediterraneo.

Ma, si torni sulla traccia storica della nascita della rappresentazione del paesaggio: l’elogio dell’agricoltura, fonte della bellezza del paesaggio è un capitolo centrale dell’opera di Senofonte. Le mani dell’uomo costruiscono città, mura, case, templi. Creano quasi un’altra natura: “nostri sono i fiumi e i laghi, seminiamo il frumento e piantiamo gli alberi; diamo fecondità alla terra irrigandola, tratteniamo i fiumi nel loro letto, ne raddrizziamo e deviamo il corso”.¹

Come ricorda Massimo Venturi Ferriolo, «l’arte del paesaggio nasce con l’agricoltura, in particolare con l’innesto della vite, pianta simbolo del genio, che rivela la cultura e il conseguente incanto di un paesaggio: è la metafora dell’arte, della mano dell’uomo o del dio.

È l’immagine di un rapporto che l’uomo moderno ha perduto. Stabilisce la soglia tra la natura e l’opera. Anche quando è dono degli dèi, in particolare del dio della tecnica astratta della musica, Dioniso, la vigna è segno del lavoro, nobiltà del coltivato. La coltura della terra è un culto e la vite rappresenta il confine tra la natura e il paesaggio, il passaggio da una realtà all’altra, favorita dall’arte, capacità umana di creare paesaggi, realtà estetiche dalla visibilità diffusa o raccolta. Estetica indiretta favorita da un’attività finalizzata principalmente a procurare i beni necessari alla vita. Risolti i bisogni, l’uomo costruisce paesaggi e giardini per il lusso della bellezza. Sono cantieri aperti, un’attività continua che rispecchia una società e le idee dominanti.»²

In realtà, pur se possiamo intuire quanto profonda sia la linea di demarcazione che segna la distanza tra l’idea di paesaggio da quella di giardino (tanto che la cultura cristiana l’ha chiamata para-dèisos – giardino recintato), tra di esse non vi è una sostanziale differenza in termini rappresentativi, e dunque compositivi.

E per Kant, infatti, l’arte del giardino e quella del paesaggio rispondono entrambe alla medesima regola: la bella disposizione dei materiali offerti dalla stessa natura per creare qualcosa che la trascenda, attraverso un’attività reale, pittorica o immaginaria…

“Kant parte dalla pittura per definire l’arte dei giardini come attività creativa a parte, differente. È il primo a stabilirne un’identità peculiare: «l’uomo imprime direttamente ai luoghi il gusto di una cultura con le sue forme geometriche ordinate. I giardini mostrano due forme con il loro grado d’esteticità raccolta. La loro arte riunisce l’aspetto formale della natura modellata in figure vegetali, spie di contesti e autorità differenti. Crea modelli legati, nel loro stile e nella loro architettura, alla cultura che li ha promossi e della quale sono il riflesso simbolico (si pensi ad esempio a El Escorial, e ai giardini del Monastero di san Lorenzo). Figure geometriche evidenti, disegnate dalla mano dell’artista affermano la finalità di stabilire la superiorità dell’arte sulla natura, in grado di creare una presupposta situazione di sincronia come nei giardini rinascimentali italiani, contenitori di sculture e di mito (di cui un esempio tra i molti è Villa d’Este a Tivoli, con la superba fontana di Roma)”.3

Il disegno geometrico delle architetture vegetali domina inoltre la tradizione ispano-islamica nei suoi intrecci con il mondo ellenistico-romano. “Il punto estremo di controllo della natura – manifesta nei giardini di san Lorenzo all’Escorial – è raggiunto nel modello francese di Versailles. Ogni elemento vegetale è rigidamente regolato dalla mano dell’uomo. La rigida geometria diventa l’immagine tirannica di un ordine da rispettare, garantito dalla monarchia assoluta. Il grande parco di Versailles, metafora vegetale dell’Ancien Régime a partire dal Re

Sole, mostra la grandiosità del desiderio antico del dominio umano sulla natura, riflette lo scenario di un museo mitologico all’aperto per suscitare la meraviglia di un passato da non dimenticare”.4

Ma Versailles, simbolo della tirannide, riserva anche una sorpresa: “la storia dell’evoluzione del gusto dell’arte dei giardini: Hubert Robert vi progetta un angolo della Svizzera pittoresca per soddisfare i desideri della regina Maria Antonietta, lettrice del romanzo sentimentale di Jean Jacques Rousseau Julie ou la nouvelle Eloïse.  La moglie del monarca segue una moda ormai dilagante in Europa, ironizzata da Goethe nel Trionfo del sentimentalismo, commedia teatrale autocritica. Il poeta sa che alle fonti del sentimentalismo non c’è solo Rousseau, ma anche il suo I dolori del giovane Werther. Nel Trionfo del sentimentalismo l’autoironia raggiunge il culmine in un monologo esilarante del capo giardiniere dell’inferno, che racconta la trasformazione del regno dei morti in un giardino all’inglese.

L’ideale sentimentalistico deriva infatti dai parchi inglesi. Si prenda Fountains Abbey. È l’altra forma d’arte dei giardini: il simbolo della libertà, risultato di un’arte delle forme nascoste dove la mano dell’artista non deve apparire per favorire l’immagine della libera natura che accoglie la storia, simbolo della monarchia costituzionale.  L’estetica del sentimento della natura favorisce il fascino del pittoresco, del gotico e del sublime. Le manifestazioni ideali e reali del rapporto natura-cultura si espandono per l’Europa a partire dalla seconda metà del Settecento. Il modello del giardino paesaggistico si diffonde in Germania, accogliendo forme e figure del gusto dell’epoca.  Si racchiude il mondo entro le mura di cinta di un giardino. Le architetture imitano forme estranee al luogo da integrare nel parco e avere così la presenza di paesaggi lontani, mediterranei e orientali, narrati dai viaggiatori.5

Si teorizza e si realizza il sincretismo tra arte e natura, come dimostra il parco di Wörlitz dedicato “Agli amici della natura e dell’arte”. Il giardino diventa un “quadro appeso” per dare all’osservatore la prospettiva pittorica (Wörlitz: il quadro appeso). In questa cornice entra il mondo antico, medievale e in maniera dirompente quello lontano e poco conosciuto – se non attraverso le incisioni – della Cina. I viaggiatori portano con sé dall’Oriente stampe e riproduzioni di particolari del paesaggio cinese da trasferire nei giardini all’inglese. Questi, progettati originariamente come rappresentazione della natura libera, copia del paesaggio circostante, accolgono man mano la storia con i finti templi greci e romani, con le rovine delle abbazie abbandonate in seguito alla rivoluzione con le loro architetture gotiche, fino a riempirsi di cineserie. Friedrich Schiller, in un saggio del 1795, critica la mania di voler raccogliere il mondo all’interno della cinta di un giardino. Le architetture imitano forme estranee al luogo da integrare nel parco e avere così la presenza di paesaggi lontani, mediterranei e orientali, narrati dai viaggiatori.

L’effetto pittoresco entra nei parchi europei. Nascono giardini costruiti con questi canoni estetici per l’igiene pubblica della città industriale. L’arte del paesaggio propone forme antiche con materiali nuovi per recuperare una dimensione di vita urbana: il parco pubblico, punto d’incontro per gli abitanti dei nascenti quartieri periferici (molte saranno le rappresentazioni di questo nuovo concetto ambientale, come Paris: la città vista dal Parc des Buttes-Chaumont).

Un ideale di risanamento paesaggistico urbano attraversa le capitali europee, Parigi in primo piano. L’esposizione universale del 1867 offre una delle creazioni più interessanti dell’arte dei giardini del XIX secolo dagli eccezionali effetti pittoreschi. Il Parc des Buttes-Chaumont, opera di trasformazione paesaggistica del territorio, appare un’enclave di straordinaria bellezza. Vi si accolgono le tecniche moderne della composizione e della decorazione con l’utilizzo di cemento, calce e argilla per riprodurre con grande artificio effetti di natura, come ruscelli pietrosi o cascate montane.

Il tema della cascata conduce alla Valle del Lauterbrunnen e allo Staubbach, il torrente precipitoso, luogo di estremo fascino pittoresco celebrato dalla letteratura settecentesca. La cascata si collega al destino umano. Simile all’acqua è l’anima dell’uomo, recita il Canto degli spiriti sulle acque composto da Goethe dinanzi allo Staubbach: “Viene dal cielo,/ risale al cielo, di nuovo scendere / deve alla terra,/ in perpetua vicenda. / Il getto limpido / sgorga dall’arduo / precipite dirupo;/ sul sasso liscio si / frange in belle nuvole / di pulviscolo;/ ondeggia accolto / in dolce grembo, /tra veli e murmuri,/ al basso via scorrendo. / Scogli si rizzano / contro il suo èmpito; / egli spumeggia iroso / di gradino in gradino / verso l’abisso. / Indi per lento letto / di prati volgesi, e fa / specchio di lago,/ dove il loro viso miran / tutte le stelle. / Ma dolce amante / dell’onda è il vento;/ e talvolta dal fondo / flutti spumanti suscita. / O anima dell’uomo / come all’acqua somigli!/ O destino dell’uomo / come somigli al vento!”.6

Lo scorrere dell’acqua esprime ancor oggi, nel paesaggismo contemporaneo, la vita (Alessandro Tagliolini, la cascata, Sciacca) e la morte (Gunnar Asplund e Sigurd Lewerentz, la foresta della memoria, Stoccolma). La caducità della vita umana, temporaneità nella temporalità della natura e della storia, è una realtà costante. Le forme della sua percezione rivelano lo spirito interiore di una comunità. I paesaggi, con la presenza simultanea di presente e di passato, sono costellati di percorsi del dolore, memoria dell’accaduto, come lo scenario offerto dal cretto di Burri a Gibellina, metafora che introduce al percorso del dolore.

L’oblio di una tomba abbandonata contrasta con la funzione dei cimiteri legati al ricordo. Le lapidi legano una continuità al proprio passato. Nel paesaggio dei cimiteri leggiamo l’anima stessa di una comunità. L’immagine del cimitero armeno di Gerusalemme con il contrasto tra la presenza della lapide, quindi della memoria, e l’abbandono, che rispecchia la tragedia di un popolo che ha subito un genocidio. L’assenza del ricordo estingue una comunità e il relativo paesaggio.

La lapide, figura della continuità universale è un aspetto dell’architettura della morte. Le tombe nelle città, nelle campagne e nei giardini ospitano le spoglie dell’uomo, che da mortale abita la terra. Il ritorno alla natura percorre vie diverse, differenti dimore, più culture.

Alla tradizione mediterranea si contrappone quella scandinava con due direzioni. Mariebjerg è un paesaggio del dolore straordinario (Copenhagen: Mariebjerg Kirkegård, boschetto). Offre la scelta del tipo di sepoltura: da una parte un boschetto, creato dall’arte delle forme nascoste, dove le urne vengono depositate sotto i sassi sopra i quali è inciso il nome del defunto. Dall’altra, piccoli giardini dalle forme diverse ospitano un ritorno all’ignoto della natura: le urne sono depositate dentro il recinto del giardino a cui appartengono ma senza indicazione del nome”.7

Straordinario simbolo cristiano di dolore e sofferenza, così come avviene in Caspar David Friedrich, “la croce (Stoccolma: Foresta della memoria, croce) conduce al calvario (Paris: rue du calvaire), alla via dolorosa (Gerusalemme: via dolorosa) di un luogo tormentato dalle difficoltà di convivenza derivate da storie e architetture sovrapposte legate al sacro”.8

A Gerusalemme il Duomo della roccia, secondo luogo sacro dell’Islam, è costruito sopra le rovine del tempio di Salomone con il muro del pianto. Questo paesaggio è lo specchio di una tragedia che il mondo vive giornalmente: una tragedia storica. In uno spazio ristretto contiene, sopra, il luogo sacro all’Islam e, sotto, quello degli Ebrei.

 Senza l’osservazione diretta di questo paesaggio non è possibile comprendere la complessità della coesistenza di diverse religioni, che si rispecchiano nelle architetture. Il futuro del paesaggio è multiculturale. L’Europa accoglie ormai altre culture. L’immigrazione è di fatto una realtà paesaggistica. Parigi è territorio di radicata sperimentazione di forme di coesistenza accolte dal paesaggismo. I giardini dell’eterogeneo di Bernard Lassus sono lì a dimostrare questa tendenza: creare, con gli strumenti forniti dall’arte e dall’inventiva umana, forme di piante nelle quali ognuno possa riconoscersi senza identificarsi.

Parchi e giardini fungono non solo da luoghi totali della memoria, ma anche da spazi di sperimentazione del paesaggismo contemporaneo. In ampia prospettiva, dalla Scandinavia a Israele si sviluppano forme antiche e nuove. Il modernismo realizza impianti significativi collegati alla tradizione di un rapporto essenziale con la natura. Lo dimostrano i giardini di Søresen, architetto paesaggista danese, ideatore, tra l’altro, dei giardini in condominio di Naerum Vaenge. Ma il paesaggismo entra invece nel deserto con l’ambizione di trasformarlo in giardino, mutando una realtà naturale (Sede Boquer: trasformare il deserto in giardino).

Il governo della trasformazione e la pianificazione dei luoghi percorrono le strade del ripristino e della ricerca di forme nuove (Cannobio: percorsi del paesaggismo). Le politiche territoriali spaziano tra conservazione e creazione, passando per la protezione, la gestione, e la pianificazione.

I nuovi paesaggi, quelli che hanno perso la continuità della loro trama narrativa per gli strappi subiti, quindi non ricostruibili, sono oggi spazi di sperimentazione. Sono la scommessa del futuro, della capacità dell’uomo di misurarsi con i propri eccessi. Il loro progetto si biforca in due direzioni: – il recupero della dimensione della  natura con la rinaturalizzazione di aree minerarie dismesse o di ambienti inquinati e degradati; – la risistemazione di zone abbandonate di archeologia industriale o la bonifica e la pianificazione paesaggistica di ampi siti devastati dallo sfruttamento intensivo delle risorse naturali, a opera di macchine estrattive di enormi dimensioni, che ha nel tempo snaturalizzato l’ambiente.

La creatività, unita alla memoria di un particolare momento storico, può immaginare la realizzazione di un giardino industriale di enormi sculture di ferro in uno scenario paesaggistico, come a Ferropolis, grazie al paesaggio della Baggerstadt e dell’Acropoli, che recupera non solo l’ambiente naturale ma anche la visibilità del tempio e del teatro greci.

Costruire, restaurare o ricostruire? Sono i grandi temi del dibattito contemporaneo. Il paesaggismo recupera i luoghi devastati e perfeziona la bonifica ambientale. Il risanamento di miniere a cielo aperto crea un ambiente rinaturalizzato, uno spazio protetto di ripopolazione floristica e faunistica – un tentativo di ritrovare la natura dove lo sfruttamento del suolo ha raggiunto livelli profondi di degrado ambientale.

Per esempio a Canal Bassin, Gran Bretagna, dove il tentativo di riportare la natura al suo stato originario o quello di ripristinare la sua prevalenza è alta espressione culturale della coscienza umana, al fine di porre freno agli eccessi della tecnica, e favorire un’inversione del suo utilizzo, rendendolo positivo in funzione di un ritorno alla natura. In questa prospettiva si può guardare anche alla Valle dell’Aire, a Leeds, una delle tante aree delle periferie urbane industriali dismesse, che diventano oggetto di sperimentazione paesaggistica di nuove forme di abitabilità e di vita, dove la trasformazione delle fabbriche in dimore è parallela al risanamento del fiume Aire.

La realizzazione di giardini e paesaggi esce dall’ideale di uno spazio estetico e reale intatto, per proporsi come una nuova e antica necessità umana e urbana, capace di offrire occasioni multiple, ampie e articolate, volte a soddisfare i molteplici bisogni individuali e collettivi di spazi vitali.

La qualità dei nuovi paesaggi, come a Herning, con la trasformazione della manifattura tessile di Angli, si propone come risorsa per un’economia fondata sulla bellezza dei luoghi.

La dimensione moderna della natura comprende il complesso degli interventi dell’uomo che caratterizza lo sviluppo socio-culturale di un territorio. Il mondo contemporaneo è chiamato a proporre una nuova configurazione paesaggistica che esprima la sensibilità e lo spirito del tempo, nel suo rapporto fra passato e futuro. L’antica idea di giardino si realizza in molti modi, dai semplici simboli individuali di un giardino in un patio a Toledo, a quelli più complessi dell’arte contemporanea, come quelli di Giuseppe Penone per il parco di Venaria Reale.

L’immaginazione sperimenta sempre nuovi rapporti con lo spazio, per un’attuale più equilibrata e concreta relazione tra uomo e natura, tra il cittadino e l’ambiente che lo circonda, spesso attraverso una concreta rappresentazione del sacro (Barcellona: Parcc Guell).

Oggi paesaggio significa la città, il tessuto urbano, così come quello extraurbano. Le città si offrono come luoghi di sperimentazione di nuovi rapporti umani con la spazio. Le architetture lasciano il segno e giocano con i giardini (Parigi: Parc Citroën).

Tra passato e futuro la città si trasforma alla ricerca di nuovi modelli in sintonia con i vecchi. La prospettiva paesaggistica è duplice tra conservazione e progetto: la piramide di Pei al Louvre parigino ne è un esempio straordinario, ma per soddisfare il desiderio di un ambiente vitale dove l’uomo può ritrovare il dialogo con il suo spirito per perpetuare il paesaggio con le sue tradizioni, bisogna andare al banco dei vini di Francia o nel giardino di Belleville. Ogni luogo ha il suo carattere ed esprime un proprio gusto che riflette le scelte compiute nel bene e nel male.

Si profila il recupero del significato attivo della visibilità e la proposta di un’etica rivolta alla storia nella sua evoluzione, a formulare il progetto per il futuro con l’occhio attento al paesaggio come luogo complessivo della vita umana, nelle sue trasformazioni legate agli eventi contemporanei, creatori di nuovi miti e nuove legittimazioni, come la Potsdamer platz di Berlino, grande cantiere paesaggistico.

Il progetto del paesaggio considera quindi il carattere etico-normativo proprio della funzione del mito, connessa con le forme di vita e le istituzioni sociali, che prevedono ora ambiti pluriculturali e spazi eterogenei. I nuovi paesaggi vengono da qui, da una nuova visibilità.9

Note:

1) Cicerone, De natura deorum, II.60.

2) Massimo Venturi Ferriolo, Etiche del paesaggio. Il progetto del mondo umano tra antico e moderno, Editori Riuniti, Roma, 2002.

3) Cit. da Massimo Venturi Ferriolo, ibid.

4) Cit. da Massimo Venturi Ferriolo, ibid.

5) Cit. da Massimo Venturi Ferriolo, ibid.

6) Tr. it. di Diego Valeri, in J. W. von Goethe, Opere  (a cura di V. Santoli, Sansoni, Firenze 1989, pp. 1294-1295.)

7) Riportiamo integralmente questo lungo estratto da Massimo Venturi Ferriolo, Op. cit., per gentile concessione dell’autore.

8) Come di consueto, anche questo numero della rivista, attraverso la lettura tematica che accomuna le diverse sezioni e i relativi contributi critici, intende presentare in un palinsesto aperto al confronto interdisciplinare alcuni tra i tanti indirizzi di ricerca che affrontano il soggetto della Croce. Abbiamo qui riportato ampi estratti dall’opera di Venturi Ferriolo, come quest’ultimo indicato dalla nota, per offrire un quadro il più completo e coerente possibile della sua riflessione disciplinare, così da poter porsi in dialogo aperto e diretto con gli altri contributi critici. In particolare facciamo riferimento all’articolo di Marilena Bordin, I tre volti della crocifissione: Donatello a Padova. Tenendo sempre presente che la riflessione sul tema della croce ha coinvolto il dibattito filosofico del XX secolo offrendo contributi filosofici tra i più feraci e solidi, come quello di Emmanuel Mounier, che la riporta a simbolo della società stessa.

9) Per chi desiderasse entrare nel dibattito attuale in corso, si rimanda anche al sito:

http://www.culturaitalia.it/opencms/it/contenuti/focus/focus_0652.html