Reporting From The Front

Carla Campalani

dsc_5138I giganteschi spazi dell’Arsenale lasciano sempre a bocca aperta il visitatore che entra alla Biennale, e aprono un perfetto scenario, in particolare per la mostra di Architettura, intesa come “viaggio” tra testimonianze giunte a Venezia da ogni luogo della Terra. Un unico percorso espositivo sfuma i confini tra le varie culture e offre il senso della continuità e del divenire, anche se, talvolta, in modo non del tutto chiaro per quanto riguarda l’allestimento nei padiglioni dei Giardini.

Il curatore Alejandro Aravena

Il curatore Alejandro Aravena

Il titolo della quindicesima Mostra internazionale di Architettura di Venezia “Reporting From The Front”, rispecchia più che mai il vivere odierno, ponendo in primo piano i temi più attuali, come la riduzione dei costi, la gestione dell’emergenza, il valore sociale dell’architettura. Per non dire del riuso e del suo valore etico, quale unica scelta possibile per l’architettura, proposta alla stregua di una moda, perché siano efficaci.

È insomma il “leitmotiv” di tutta l’esposizione, che s’intuisce già dallo spazio d’ingresso alla mostra, in cui il curatore Alejandro Aravena riutilizza per le pareti pannelli di cartongesso sovrapposti, e telai di alluminio (provenienti dalla precedente Biennale d’Arte) appesi al soffitto. L’effetto, indubbiamente molto suggestivo, provoca però una certa inquietudine in diversi visitatori, che, transitando, si sentono oppressi dalla minaccia di mille spade di Damocle, le cui taglienti estremità incombono a una manciata di centimetri dal loro capo… anzi, quasi nessuno si sofferma in questa prima grande sala (sulle cui pareti, dispersa nella cangiante e ovunque confinata atmosfera futurista in cui suoni e riverberi si sovrappongono, quasi invisibile, vi è una teoria di piccoli monitor, che raccontano il dsc_5109processo di realizzazione della mostra), divenuta, grazie al suo indubbio impatto scintillante, quasi l’emblema dell’esposizione. Ma forse Aravena ha ottenuto proprio così l’effetto desiderato, inducendo tutti a passar oltre speditamente: la mostra inizia appena ci si lascia alle spalle la pletora delle lame che pendono sul capo.

Esposizione impossibile da visitare tutta in un giorno, e specialmente senza essersi documentati, perché i messaggi trasmessi dalle varie istallazioni nazionali, spesso apparentemente senza legame con i temi dell’esposizione, non sono sempre chiari e immediati, ma necessitano di una attenta lettura delle didascalie.

All’Arsenale, interessante il progetto “Plan Selva”, nel padiglione del Perù, che prevede un piano pubblico per la costruzione di scuole nelle regioni rurali ed isolate dell’Amazzonia. Coinvolgente l’allestimento che mette in evidenza i principi fondamentali di giovani architetti e designer, all’insegna della modularità e della particolare scelta di materiali riciclati destinati a progetti finalizzati a edifici scolastici.

Molto ben riuscito il padiglione Italia con “Taking Care – Progettare per il bene comune” curato dallo studio Tam e Associati, che opera ormai da diversi anni nell’architettura sostenibile, partecipata e a servizio del bene comune.

dsc_5171Il progetto si articola in tre sezioni: la prima, “Pensare il bene comune”, è riflessione sul significato pregnante della locuzione da parte di personalità di estrazione diversa, e costituisce la base teorica e comunicativa del progetto; la seconda, “Incontrare il bene comune” presenta esempi di buone pratiche architettoniche e sociali in venti realizzazioni di studi italiani; infine, la terza, “Agire il bene comune”, costituisce la parte laboratoriale e sperimentale del progetto. Quest’ultima sezione, decisamente interessante, propone 5 strutture mobili a servizio di 5 associazioni nazionali che operano in contesti di marginalità sociale negli ambiti di salute, ambiente, cultura, legalità e sport.

Al termine dell’esposizione tali strutture diventeranno strumenti operativi per interventi reali nelle zone di interesse delle associazioni stesse, come prolungamenti, che, dalla Biennale espandono nel territorio diventando azione concreta.

Tra gli interventi più significativi anche l’installazione della Spagna, che si è meritata il Leone d’Oro per il miglior padiglione: con la mostra “Unfinished”, ai Giardini, la Spagna affronta il problema del riuso di edifici incompleti e abbandonati negli anni precedenti la crisi economica, recuperabili tramite interessanti interventi di giovani architetti emergenti, al fine di rispondere a nuove e reali esigenze. L’allestimento, in tema con il “non finito”, è molto essenziale, e costituito da telai di alluminio e fotografie montate su cornici in legno.dsc_5128

Sempre ai Giardini, da vedere il padiglione del Giappone, che, con la mostra dal titolo “EN” (relazione, opportunità), riflette sull’individualismo presente nel paese, sulla densità abitativa e catastrofi ambientali.

Attraverso lo stile semplice ed elegante che contraddistingue l’architettura giapponese, sono proposti nuclei abitativi, che riprendono e rielaborano la connessione tra interno ed esterno della casa tradizionale, ripensati per famiglie poco numerose quali quelle attuali. Da qui la realizzazione di spazi comuni ampi, a servizio di unità abitative ridotte, aventi funzione di favorire la socialità.

Sempre sul tema dell’abitazione, e sui sempre più ridotti tempi di permanenza nella stessa,  fa una riflessione anche la Gran Bretagna, proponendo, in maniera prov

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Rebecca Irvin, direttrice delle attività filantropiche di Rolex

ocatoria, 5 modelli di nuove “abitazioni a tempo”.

Infine, la Germania propone l’attualissimo tema dell’immigrazione con “Making Heimat. Germany, Arrival Country”, che ruota attorno al concetto della “Arrival City”, definizione presa in prestito dal titolo del saggio di Doug Sanders del 2011. Peccato però per l’allestimento piuttosto povero e poco incisivo rispetto all’importanza del tema.

Concludendo, i padiglioni che colpiscono favorevolmente (quelli citati), non sono che una piccolissima parte rispetto alla totalità delle installazioni presenti. Ma il giudizio complessivo finale è comunque positivo: il messaggio trasmesso è forte e attuale, il modo di fare architettura sta cambiando per necessità, non resta altro che trasformare questa necessità in virtù.