Roma: il teatro della meraviglia

di Marco Marinacci

Se il XVII secolo diventa, col Barocco, un gioco di spazio e forme, la scacchiera su cui il nuovo stile costruisce le proprie mosse è Roma. Roma, a differenza di Venezia (la quale sopravvive al proprio destino attraverso il sogno cristallizzato della sua bellezza, trasformata in maschera, sempre uguale a se stessa, quando si specchia e si guarda lungo il corso del Canal Grande)¹, non può non fare i conti con la storia, in quanto città che incarna il potere temporale al sommo grado: quello di trasformare in terreno il mandato spirituale.

La maschera non è più quella del Carnevale, in cui ciascuno, per un giorno almeno, torna padrone del proprio destino², ma quella di un teatro, che mette in scena un tempo di fasti, di antiche glorie, di vestigia immortali… tutto quanto era Roma, prima del 1527.

Dopo la data fatale del Sacco, la Città Eterna non potrà essere più la stessa, e si scoprirà inespugnabile solo nei propri salotti, dove le armate plebee dei lanzichenecchi non avranno mai accesso, e dove prenderà vita un teatro di corte – nessuna corte sarà mai più esclusiva di quella papale – che si riverserà nelle strade grazie al sogno urbanistico di Sisto V.

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Lo scalone del Borromini a Palazzo Barberini

Quando gli obelischi diventeranno i vessilli di una nuova civiltà, pronta a incontrarsi in strada – strade tirate a piombo, come ogni civiltà di canone aristocratico che si rispetti, direbbe Hauser – libera di parlare il linguaggio aulico e solenne di una classicità non solo recuperata, come nel Rinascimento, ma in fermento, in espansione dilagante, tanto da sommergere l’intera Urbe, si staglierà alto il gonfalone barocco.

La crescita ipertrofica, lo slancio, l’ascesa, sono tutte declinazioni di tale fuga verso il cielo. Anche la prospettiva olimpica e verticale del teatro palladiano deve cedere il passo a quella sempre più ripida del nuovo teatro urbano, dove ogni via di fuga cittadina è sempre verso l’alto, che sia Trinità dei Monti o uno dei sette colli: vietato guardare in basso!

Come fare? Semplice, quando il genio si chiama Borromini. Il quale, guardando alla verticalità per eccellenza, uno dei quattro pilastri che 3edd1c6d8450ef946db15963cc398973sorreggono San Pietro, ancorata alla forma pesante di materia come non poteva non essere nell’idea di Michelangelo, lo immagina vuoto, pieno di spazio, e di luce. E la cristianità si ritrova a levitare nella luce di San Carlino, senza più alcun bisogno di essere sorretta.

Il volo, la fiamma, la luce, sono i tre elementi che legheranno ogni visione dei massimi artefici del primo brano di ‘600. Non sembrerà credibile, ai Francesi, quando Bernini proporrà loro il progetto per l’ala est del Louvre, quella stabilità così dichiaratamente sfuggente alle regole vitruviane… Replicarono a loro modo raddoppiando il numero di colonne, non si sa mai che il nuovo morbo le abbia minate alle fondamenta. E così scelsero come architetto Claude Perrault, fratello di quel Charles che rimane nelle preghiere di molte mamme e papà con pargoli dal sonno difficile.

Palazzo_barberini,_scalone_del_borromini_03Il Seicento è un secolo in cui la storia diventa teatro, favola, artificio. Il tutto sempre sotto il sigillo obbligatorio della meraviglia.

Dopo Platone, fu Cartesio a riscoprirne il valore primario, descrivendola come una delle emozioni fondamentali, in quanto le stesse emozioni sarebbero state nient’altro che reazioni a fenomeni inaspettati. Primato alla meraviglia, tra le passioni³. Per far posto alla nuova “regina”, il panorama delle città mutò profondamente: le piazze iniziarono a far da cornice a edifici sempre più grandi, i quali, in netta contrapposizione col tessuto circostante, che nell’apparire inaspettato al pellegrino, sbucato da qualche via laterale, venivano a palesarsi in tutta la loro forza struttiva e vitale. Così, lo stupor mundi dalla strada interveniva anche nell’arte, e, mentre la polvere sui piedi dei pellegrini entrava nelle tele sacre, qualche foglia cominciava ad appassire in una canestra, che presentava così in silenzio, all’osservatore, la sua natura vivente.

G.B. Piranesi, Villa di Mecenate in Tivoli

G.B. Piranesi, Villa di Mecenate in Tivoli

Una natura sempre più ondivaga, nascosta per lo più, che, poi, di tratto, fa capolino in un panno sdrucito, in una mela marcia, in un timpano rotto, in una piazza

ovale. Una stratigrafia ambientale, soprattutto, che alla finzione del nuovo teatro urbano contrappone la storia, i resti e la memoria. Il secolo dopo sarà Bellotto, a cogliere il segno di questa stratigrafia ambientale, in un percorso di ricostruzione scenica, che, dal Foro alle strade al Tevere, ne traccia la memoria. Mentre la finzione sarà affidata alla visionarietà insuperata di Giovanni Battista Piranesi.

Note:

1) si veda l’editoriale del numero precedente, con riferimento al genius loci del Canal Grande.

2) questo il significato in epoca romana, quando per un giorno i servi erano liberi di vivere come i loro padroni, e la maschera assume valenza sociale.

3) René Descartes, Le passioni dell’anima, art. 53.