La percezione del colore

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Figlio dell’Uomo,/
guarda con i tuoi occhi,/
e ascolta con i tuoi orecchi,/
e disponi il tuo cuore/
a tutto ciò che ti mostro./

– Thomas S. Eliot –

Per partire verso qualsiasi indagine razionale non vi è altra speranza che quella di servirsi dei sensi, e quello che s’impone per primo nell’intraprendere un tale viaggio, in quanto da sempre intimamente legato alla “ragione”, è la vista (basti pensare all’etimo perspicio). Un senso che ha trovato nell’arte non solo un ideale riferimento estetico con cui cimentarsi in modo da presentarsi lei stessa quale forma esplicita dell’intelletto umano, ma addirittura quale sua prima e imprescindibile espressione.

Anche se non possiamo certamente dimenticare le categorie “tattili” o “sonore” dell’arte rappresentativa, è però al dominio del visibile che essa è fatalmente vocata. Un visibile dominato a sua volta da due imperi fenomenici: le forme e i colori. I pittori si sono da sempre schierati con l’uno o con l’altro partito, tanto che le opere d’arte che prendono vita dalle due opposte fazioni possono dar luogo a dinamiche percettive estremamente differenti.

La parata del circo - Georges Seurat (1888)

La parata del circo – Georges Seurat (1888)

L’approccio scientifico neurologico ha suggerito di pensare alla percezione sensoriale dei pittori che hanno inteso rappresentare la realtà attraverso i colori piuttosto che attraverso la forma, come un processo derivato da mappe cerebrali, in cui sono rappresentati, l’uno accanto all’altro, punti adiacenti dello spazio cromatico, anziché dello spazio cartesiano¹.

Monet e Van Gogh ad esempio, secondo questa interpretazione, deriverebbero da una simile dinamica percettiva l’efficacia del colore “non realistico” delle loro opere; per questa ragione avrebbero opportunamente accentuato il dato cromatico, mentre avrebbero deliberatamente “confuso” i contorni: perché l’attenzione dell’osservatore rimanesse concentrata solo sui colori. E sempre da questa diversa (o ulteriore) capacità percettiva, altri pittori, come Leonardo, Rembrandt, Vermeer, avrebbero, secondo questo approccio, scelto di esaltare caratteristiche ancora più astratte, come l’ombreggiatura e l’illuminazione.

Ma è sulla percezione del colore che vogliamo concentrare ora la nostra attenzione, in quanto essa si offre alla vista con una dinamica più immediata e meno “razionale” rispetto alla forma. Se la storia dell’arte già a partire dal Cinquecento delinea due grandi tendenze che decideranno il destino della pittura europea in chiave disegnativa (il che vuol dire Firenze e il chiaroscuro) o coloristica (cioè la grande tradizione veneta e il tonalismo), sarà nell’Ottocento che questa seconda arriverà a un punto di rivoluzione definitivo: il momento in cui dovrà incrociare i propri geni con la ricerca cromatica scientifica.

A questo punto è bene fissare alcuni punti, valutando aspetti del colore non sempre considerati o presentati esplicitamente dalla disciplina storico-artistica. Partiamo dall’assunto che i colori non sono né una pura proprietà fisica del mondo, né una pura proprietà psicologica o fenomenica. Le teorie del colore si sono succedute nelle diverse epoche privilegiando l’uno o l’altro aspetto, ma senza giungere a una definizione ultima. Se cerchiamo di tracciarne il percorso storico troviamo una prima fondamentale teorizzazione nel De Anima di Aristotele, in cui lo Stagirita espone la sua teoria della mente (da lui chiamata anima) e parallelamente definisce il rapporto tra la mente e alcuni “accidenti” che possono essere il contenuto della mente. L’esempio che riporta è quello di un vaso che può essere di diverso colore, ma viene percepito come tale in quanto ha forma di vaso. Quindi, per Aristotele, la forma non è accidentale, il colore sì. Ciò deriva anche dall’evoluzione fisiologica dell’occhio, che ha prima privilegiato la forma (alla cui interpretazione sono infatti destinate maggiori aree cerebrali) e solo in un secondo momento il colore. Risulta però a noi evidente, che viviamo nel mondo iper-colorato dall’industria, al contrario di quello in cui abitava il filosofo, che anche il colore ha un suo valore percettivo intrinseco: se vediamo un liquido non ne percepiamo la forma ma il colore, e tuttavia è oggetto della nostra dinamica dei sensi come qualunque forma solida. Tuttavia ad Aristotele va riconosciuto il merito di aver notato che la percezione non può essere in sé sbagliata, se la intendiamo nel suo senso proprio di “fare esperienza di qualcosa”. Lo potrà essere semmai l’interpretazione del meccanismo causale: se percepisco un oggetto come rosso, la mia percezione reale è il colore rosso, anche se ciò dipende da una luce rossa che illumina l’oggetto, che posto alla luce solare risulterebbe invece bianco.

Il passo successivo si avrà fondamentalmente solo con Galileo, il quale teorizza che i colori non appartengono al mondo reale, ma alla mente: siamo noi che vediamo il mondo colorato. I colori sono, per così dire, introdotti dal soggetto per identificare altre proprietà dei corpi.

Una tesi che va quindi chiaramente nella direzione del colore come proprietà fenomenica. Sarà Newton a muovere un ulteriore passo, ma in direzione opposta: nel 1704 il filosofo inglese scrive il rinomato trattato Optiks, in cui si presenta la teoria corpuscolare della luce, che asserisce infatti che i colori sono direttamente legati alla proprietà fisica della luce. Rimane però sospeso il discorso riguardante il rapporto con le sensazioni-percezioni dei colori (ed è in questo senso che Newton è a volte considerato come un soggettivista: in quanto afferma anche che la percezione dipende dal sistema sensoriale umano). E’ comunque a Newton che dobbiamo l’idea di disporre i colori dello spettro (il termine si deve sempre a lui) in un cerchio, cosa che avrà immediate ricadute nell’arte, a cominciare da una nuova tavolozza per i pittori. In parallelo alla teoria corpuscolare, viene elaborata quasi negli stessi anni da Christian Huygens (1629-1695) la teoria ondulatoria della luce, che presenta la luce come un fenomeno costituito da onde, di cui i colori costituiscono le diverse frequenze.

Dopo quest’adesione al dato fisico, nell’Ottocento Thomas Young (1773-1829) riporta la teoria della luce nel campo psicologico, su basi fisiologiche: i colori sono recepiti dalla retina, che li interpreta, attraverso tre recettori (per il giallo, rosso e blu). Un passo epocale rispetto a Newton, che pensava invece che i recettori fossero tanti quanti i colori (tinte), e che conseguentemente dà ora molto maggior peso alla dinamica interpretativa, all’interno di quella percettiva.

Bisognerà entrare nel XX secolo perché Johannes Müller (1864-1949) possa proporre un modello teorico in cui le sensazioni sono prodotte dai nervi in base a qualche meccanismo che permette a ogni nervo di conferire una particolare energia al segnale che trasmette. Ne deriva che i colori sono una particolare energia specifica. La teoria ebbe il grande merito di unire sensazione e fisiologia, e rispose in maniera intuitiva a tutte le questioni aperte fino ad allora, ma ebbe anche un difetto che la scienza non ammette: non trovò mai alcuna validazione sperimentale.

A questo punto ci troviamo di fronte a due posizioni normalmente definite coi termini di soggettivismo (o psicologismo) e oggettivismo (o fisicalismo). La prima afferma che i colori non hanno una corrispondenza reale nel mondo, ma sono frutto della mente, puri costrutti psicologici: è la posizione tanto dei razionalisti seicenteschi come Galileo, Cartesio e Locke, quanto di alcuni neuroscienziati contemporanei², che alle “impressioni” dei primi sostituiscono le attività neurali, ma il concetto di base resta immutato. E’ in questo senso che oggi trova espressione un’affermazione come: “La nostra corteccia cerebrale crea e interpreta la realtà in modo cosciente […]La visione a colori è soltanto un esempio delle astrazioni create, in questo caso, a partire da un mondo fisico privo di colori³.”

Sulla sponda opposta si pongono, Newton, Huygens e coloro che cercano nel mondo fisico un corrispettivo diretto alla percezione dei colori, intesi quindi come proprietà reali del mondo e non mediate dall’interpretazione del cervello.⁴.

Infine ci sono teorici che propongono un’ipotesi intermedia, in cui il concetto di colore abbia in realtà una valenza duplice, sia psicologica sia fisica, a seconda della prospettiva da cui lo si consideri; una teoria che sembra presentare una affinità teoretica già validata ad esempio dalla famosa visione dualistica “onda-particella”, affermata dalla teoria quantistica⁵.

In conclusione di questo breve excursus si pone in evidenza che la prima svolta epocale riguardante la teoria del colore si ha con Newton: se infatti fino al Razionalismo vediamo il colore coincidere con una proprietà dei materiali, da allora in avanti lo troveremo sempre correlato alle proprietà della luce. Tuttavia a questa ipotesi oggettivante si è sempre opposta una teoria del soggetto quale interprete e quindi “autore” del colore. Con Young si scioglie un nodo spinoso in quanto viene anticipata la definitiva conferma microscopica dei fotorecettori della retina, con la quale viene offerta alla teoria del colore una base fisiologica della struttura in tre dimensioni, corrispondente ai tre colori primari. Da allora si è sempre più affermato il modello del colore suddiviso in tre dimensioni, che non dipendono dal mondo fisico, ma dalle strutture della nostra percezione⁶. Il modello attuale prevalente ipotizza che ogni colore abbia tre dimensioni: l’intensità, la tinta e la saturazione. L’intensità è, per dirla semplicemente, la luminosità di un determinato colore. Con la tinta si ha familiarità grazie allo spettro cromatico, che permette appunto di ordinare le tinte secondo l’ordine ben conosciuto: dal rosso al viola (nello spettro del visibile).

Infine, la saturazione è un concetto un po’ più sfuggente, ma che un esempio può chiarire bene: quando vediamo un oggetto rosa, vediamo in realtà un oggetto rosso meno saturo; la tinta rosa non esiste, è nella gamma del rosso, che percepiamo appunto rosa per bassa saturazione.

Questo modello ha però radici antichissime, e, per rendercene conto, basta analizzare le tecniche messe in pratica dai vari artisti nelle diverse epoche, i cui momenti più significativi sono stati ampiamente segnalati dalla storia dell’arte.

Analisi iconografica e iconologica

In questo breve saggio non possiamo per ovvie ragioni considerare tutti i “momenti” della storia dell’arte in cui il colore s’impone come componente primaria nella ricerca pittorica, ma possiamo prendere in esame un caso esemplare, che porta alla luce molte delle dinamiche percettive analizzate nel testo: il Puntinismo.

Il Puntinismo (o Pointillisme) si presenta infatti come il primo “momento” in cui la ricerca artistica si avvale metodicamente e dichiaratamente di quella ottico-cromatica scientifica, in una simbiosi non comune alla storia delle due discipline.

Si tratta di una ricerca artistica messa a punto da Georges Seurat (1859-1891) e Paul Signac (1863-1935), e poi, a partire dal 1885, sviluppatasi prima in Francia, e poi in Europa sotto il nome di Neo-impressionismo o Divisionismo. Lo stesso Seurat, in effetti, non chiamò mai Puntinismo ma Cromo-luminarismo o Divisionismo la sua concezione tecnico-artistica mediante la quale si raggiunge la mescolanza ottica dei colori, che tuttavia verrà ribattezzata da lì a poco, nel 1886, dal critico Félix Fénéon, con il nome di Neoimpressionismo, per sottolineare la differenza tra l’Impressionismo originario, definito “romantico” (nel senso che si poneva all’interno di una dinamica percettiva di segno ancora intuitivo o immediato), e il nuovo Impressionismo “scientifico”. Sarà poi lo stesso Fénéon, amico del pittore, a definire la ricerca Puntinismo, come è appunto oggi conosciuta, proprio in onore alla regìa suprema della tecnica, che intendeva scomporre il dipinto in tanti piccoli punti di colore puro, formati dai pigmenti delle tinte non mescolate.

Il Puntinismo intendeva con ciò superare la conquista dell’Impressionismo, che aveva constatato l’inesistenza di un colore locale (in quanto ciascun colore è influenzato dal colore che gli sta accanto), per cercare di ottenere un grado di luminosità ancora maggiore, grazie proprio all’applicazione tecnica dei colori complementari non mescolati ma accostati per punti, e al contrasto simultaneo che ne sarebbe derivato. Ma questa tecnica comportava anche un altro fattore percettivo: la fusione o il miscelamento dei colori in questo modo non avveniva più sulla superficie della tela, ma direttamente sulla retina dell’osservatore. Si trattava dunque di una concezione tecnico-artistica, derivata direttamente dalla conoscenza delle ultime scoperte di chimici, fisici e ottici positivisti, quali Michel E. Chevreul (1786 – 1889) e James C. Maxwell (1831 – 1879). Si viene a determinare in questi anni infatti che la luce che noi percepiamo è sempre il risultato di una combinazione di colori determinati; sono questi i colori che, secondo i pittori puntinisti, dovevano essere riuniti nella tela non mescolati fra di loro, ma separati e strettamente avvicinati mediante leggeri colpi di pennello, secondo il principio della mescolanza ottica, teorizzata dal fisiologo Heinrich W. Dove (1803 – 1879). Un principio che postulava che l’osservatore, quando si ponga a una determinata distanza dalla tela dipinta (una distanza variabile a seconda dalla grossezza dei puntini colorati), non veda più separati questi punti colorati, ma fusi in un unico colore; un colore che è la loro risultante ottica impressa sulla retina dell’occhio. Il vantaggio di tale nuova tecnica sarebbe perciò consistita, secondo Seurat, nel produrre immagini molto più intense e luminose rispetto alla tradizionale stesura sulla tela di tinte preventivamente mescolate tra di loro sulla tavolozza.

Osservando ora l’opera di Seurat, La Parade du Cirque, del 1888, non solo troviamo una meravigliosa espressione di tecnica puntinista, ma possiamo anche individuare, attraverso un secondo livello di lettura, un particolare che sembra indicarci l’attenzione che il pittore riservava alle dinamiche percettive legate alla fisiologia dell’occhio. Ma andiamo per gradi.

Seurat, intendendo portare a soluzione gli studi sui rapporti cromatici, costruì un disco cromatico, ossia un cerchio la cui corona esterna ripresenta tutti i colori prismatici e intermedi.  La sequenza, di ventidue colori, inizia con il colore blu e prosegue attraverso le tinte più calde, fino al verde.  Ogni colore trova inoltre nella parte opposta rispetto al centro del cerchio anche il suo perfetto complementare. L’interesse di Seurat nel fissare questo schema preciso derivava dalla consapevolezza che ogni colore si intensifica quando viene avvicinato al suo complementare e si annulla invece quando vi è mescolato insieme, tanto da dare origine ad una tinta grigia di tonalità diversa a seconda delle tinte complementari miscelate in essa. Una pratica che si direbbe di prim’acchito piuttosto pedante, e che indurrebbe a pensare a una pittura fredda e noiosa. Niente di più falso! Come possiamo constatare osservando quest’opera, se è certamente vero che l’ambizione di raggiungere una maggiore luminosità rispetto alla tavolozza impressionista naufraghi rovinosamente, non si può tuttavia non cogliere la poesia di tale pittura. Una pittura che si stringe intorno a ideali eterni, tanto che la rappresentazione si traduce magicamente in una sublimazione del tempo che sfugge alla presa cromatica, così da rendersi partecipe della verità rivelata da Piero della Francesca e presaga del mistero di una realtà incantata: quella che può apparire tutti i giorni davanti ai nostri occhi, ma solo una volta scostato il velo di Maya.

Così, un pomeriggio alla Grande Jatte, o una sera al circo, si trasformano in un racconto della magia quotidiana della vita, fermata in un attimo lunghissimo e levitante come il pulviscolo dei pigmenti che lo compongono.

Incantati ora da questo primo, immediato riscontro derivante dal rito iniziatico della tecnica puntinista, dobbiamo fare uno sforzo per osare e andare oltre, cercando gli indizi che Seurat pone nell’opera per dirci ancora qualcos’altro, qualcosa che può essere udito solo nel silenzio della sua pausata pittura.

Seurat sembra parlarci ora da “iniziato” al profondo mistero della “visione”, dei cui arcani segreti è venuto a conoscenza grazie al percorso alchemico guadagnato con tanta fatica attraverso la tecnica puntinista, e che infine gli ha concesso di conoscere la verità rivelata.

Una verità rivelata dal visibile, cui sta a eterna memoria, per qualunque osservatore, un simbolo: la precisa rappresentazione del fondo di un occhio come si presenta agli occhi del fisiologo. Accampata appena dietro al suonatore di trombone, ci fissa, e ci dice tutto di quel che si vede da “dietro lo specchio”, dall’altra parte della realtà, che Seurat ha potuto conoscere, e di cui ha voluto renderci partecipi attraverso la magia della sua pittura rivelativa. E’ questo che appare appena ci inoltriamo ad un livello di lettura cui l’opera stessa ci chiama, e cerchiamo di interpretare il dato reale, vedendo allora mirabilmente palesarsi sullo sfondo del dipinto una retina, proprio così come appare oggi da una fotografia del fondo dell’occhio⁷.

Ma la lettura iconologica impone anche una disamina più cauta di tutti gli elementi in gioco per una corretta interpretazione. Dobbiamo allora partire dal considerare che Seurat sembra essere veramente aggiornato sugli studi anatomico-scientifici che riguardano la retina, e assolutamente consapevole dei fenomeni percettivi che avvengono in essa, tanto da volerlo comunicare all’osservatore. In effetti ciò che avviene nella retina – e che lo rende straordinario – è il fatto che un tipo di fenomeno fisico quale è la luce venga trasformato in un altro tipo di fenomeno (chimico, ovvero l’attività neurale) attraverso la “trasduzione sensoriale”: un mistero per molti aspetti ancora insoluto. La retina è, da un punto di vista fisiologico, una parte di corteccia cerebrale dislocata perifericamente, e la sua struttura “rovesciata” (dovuta al fatto che questa parte periferica di cervello si sia dovuta “adattare” alla superficie interna dell’occhio), in cui la parte fotosensibile rimane in profondità anziché dalla parte da cui giungono i raggi luminosi, fa sì che questi debbano attraversarla, per giungere ai fotorecettori. Questi, che non sono altro che neuroni modificati e in grado di reagire all’impulso luminoso grazie a particolari sostanze chimiche (le rodopsine) che lo trasformano in attività chimica, sono di due tipi: bastoncelli e coni. I bastoncelli sono responsabili della percezione dell’intensità luminosa mentre i coni della percezione cromatica. Questi ultimi a loro volta sono suddivisi in tre gruppi, ciascuno sensibile a una specifica frequenza delle onde elettromagnetiche, che corrisponde a uno dei tre colori primari: rosso, verde e blu. Non percepiamo i colori direttamente, ma come rapporto tra le quantità dei tre colori primari; per questo è possibile impiegare piccole quantità di colori primari per dare l’illusione di disporre di qualunque tinta. Tuttavia dobbiamo chiarire che, al ridursi dell’intensità luminosa, la retina diventa cieca ai colori⁸. Seurat pensò, erroneamente, studiando i risultati sulla fisiologia della percezione dei colori di Hermann von Helmholtz (1821-1894), di poter ottenere colori più vivi e veri di quelli mai ottenuti da altri artisti, ma i risultati furono piuttosto deludenti. Ciò è dovuto al fatto che Seurat non era riuscito a trovare una tecnica adeguata e corrispondente alla sintesi dei colori operata nell’occhio. Significativo è il fatto che il suo successore, Paul Signac (e così gli altri che decisero di riprodurre tale tecnica, come in seguito i Divisionisti), abbandonò l’estremo rigore puntiforme di Seurat, per un diverso tipo di scomposizione della luce: non più nelle sue componenti fondamentali, i colori primari, bensì in una pennellata per punti cromatici che dissolve campi cromatici, forme e contorni, per lasciare al sistema percettivo il compito di ricomporli (in direzione opposta muoveranno invece Louis Anquetin ed Émile Bernard, creando la tecnica del cloisonnisme e del colore à-plat, e ciò appare, alla luce della storia, paradigmatico di quanto avverrà, ovvero la nascita del Simbolismo).

L’opera di Seurat non rappresenta quindi la realtà visiva, ma la scompone intenzionalmente in una serie di punti separati che, se da una parte intendono conquistare all’arte gli ultimi risultati acquisiti dalle scienze in campo ottico, dall’altra sembrano invece richiamare la teoria della luce corpuscolare newtoniana, se non addirittura abbracciare un’ontologia dell’atomo sulle orme di Democrito. Ma il processo di ricomposizione delle forme-colori che impone la tecnica puntinista implica anche un progetto di sapore “metafisico”, in quanto l’osservatore si trova a dover ricomporre una forma-colore che entra così direttamente nel dominio del mentale, e quindi dell’ideale.

Ma il “colore puntinista” assume anche una ulteriore, imprevedibile ed esclusiva dimensione, proprio perché derivato da un processo di elaborazione: quella della memoria. Una “conservazione di informazione nel tempo” che sembra impressa nel dato cromatico e che per questo lo arricchisce, lo connota di quel dato di attimalità sospesa da cui sembra derivare quella poesia e quella magia da chiunque percepita nella pittura di Seurat.

Note bibliografiche:
Nota 1: Ramachandran V.S., Che cosa sappiamo della mente, Mondadori, Milano, 2006, p.54
Nota 2: Zeki S., “The rapresentation of colours in the cerebral cortex”, Nature 284, 1980, pp.412-465
Nota 3: Gouras P., The Perception of Colours: Vision and Visual Disfunction, MacMillan, London, 1991
Nota 4: Maloney L.T. e B.A. Wandell, “Color constancy: a method for recovering surface spectral reflectance.”, Journal of the Optical Society of America, 3, pp.29-33
Nota 5: è la posizione di Thompson E., Colour vision: a study in cognitive science and the philosophy of perception, Routledge, London, 1995
Nota 6: Manzotti R., Psicologia della percezione artistica, Arcipelago Edizioni, Milano, 2007, pp.95-110
Nota 7: Manzotti R., Ibid., p.81
Nota 8: Manzotti R., Ibid., pp.79-82

Bibliografia di riferimento:
Caroli F., La pittura contemporanea, Electa, Milano, 2001
Ings S., Storia naturale dell’occhio, Einaudi, Torino, 2008, pp.213-240
Fénéon F., Les Impressionistes en 1886, Parigi 1886
Chastel A., Minervino F., L’opera completa di Seurat, Milano, 1972
Zimmermann M., Seurat, Milano, 1992
Lapenta S., Seurat, Rizzoli Skira, Milano, 2004