Riflessione e coscienza del sé

m.m.

L’universo (che altri chiamano la Biblioteca) si compone di un numero indefinito,/
e forse infinito di gallerie. […]/
Nel corridoio è uno specchio, che fedelmente duplica le apparenze./
Gli uomini sogliono inferire da questo specchio che la Biblioteca non è infinita/
(se realmente fosse tale perché questa duplicazione illusoria?),/
io preferisco sognare che queste superfici argentate figurino, e promettano, l’infinito.

Jorge Luis Borges, La biblioteca di Babele

Ragazzo morso da un ramarro - Caravaggio (1595)

Ragazzo morso da un ramarro – Caravaggio (1595)

Con il Seicento il pensiero in figura inizia ad affrontare alcune delle maggiori esplorazioni relative alle dinamiche interne all’uomo, in primis quella sensoriale e quella della coscienza del sé, con gli strumenti della ragione (strumenti che potremmo definire già “scientifici”, se per questo periodo storico potessimo far coincidere il concetto lato di scienza con quello di Razionalismo).

Se la dinamica sensoriale si può ritrovare chiaramente inserita in quel filone aperto già nel tardo Quattrocento dall’indagine fisiognomica leonardesca, con la scoperta dei moti dell’anima, di cui prosegue la traccia fino alle soglie del XVII secolo, passando inopinatamente per un’artista come Sofonisba Anguissola (Bambino morso da un granchio, 1555), per giungere a quell’immagine fissata indelebilmente da un giovane Caravaggio nel grido di un Fanciullo morso da un ramarro (1595), e poi in tutta la loquacità carnale di cui sarà capace il Barocco, con la vetta scultorea di Bernini e quella pittorica di Rubens, la seconda, la dinamica relativa alla coscienza del sé, segue un percorso parallelo, ma più ampio e complesso. Un percorso che può essere identificato sempre grazie all’analisi fisiognomica, ma secondo una disamina molto diversa: mentre la dinamica sensoriale incrocia la figurazione artistica attraverso una serie di soggetti iconografici ben precisati (tòpoi) e vocati “alla gestualità e ai sospiri”, che la lettura fisiognomica può ancora in molti casi aiutarci a identificare (dalle bocche urlanti alle molte estasi di chiave mistica o, più spesso, profana), il viaggio verso la conoscenza dell’interiorità affronta una vera e propria “foresta di simboli”.

In effetti, quando parliamo di coscienza del sé, supponiamo due processi cognitivi che ci consentono di ricavare le coordinate primarie per continuare il viaggio verso l’ignoto: la riflessione e l’autocoscienza. Processi nodali, su cui la rappresentazione artistica s’interroga da sempre, e arrivati alle soglie del Seicento, quando viene “contaminata” dal genio caravaggesco, vi si immerge pienamente, calandosi nell’immagine di un Narciso intento a guardare il mondo della coscienza interiore, per poi riemergere, nell’estrema prova del Davide e Golia, in un universo di sensorialità ormai pregno di autocoscienza.

Immagini prolifiche di nuovi simboli, quelle che si stagliano sull’orizzonte del XVII secolo, e che affondano le radici oltre la storia, nel terreno del mito e dell’universo onirico. Un universo variegato, un terreno reso fertile dalle molte figure che appartengono alla sfera del simbolo. E sono proprio queste, le figure simboliche, che possono guidarci in questa non semplice analisi verso l’interiorità umana, una fra tutte, quella dello specchio.

E’ infatti probabile che proprio nello specchio possiamo rintracciare la più immediata tra tutte le figure simboliche di cui si nutre l’intelletto umano (a livello iconico) per tentare di strappare il velo di Maya, dietro cui si dice celarsi la vera realtà, ma è certo che sia la più efficace nello smascherare la percezione illusoria dei sensi, tanto che specchio e speculazione hanno origine dal medesimo concetto (dall’etimo latino specio e spicio = osservare), così come riflesso e riflettere (dal latino réflectere = guardare indietro, cioè riconsiderare). Etimi che di per sé riescono già a descrivere la dinamica della percezione dell’immagine che si ha attraverso l’uso dello specchio: un’immagine che “reflectet”, è infatti quella che riesce a “portare avanti ciò che sta dietro” (la prima apparenza del visibile). Quello che noi vediamo “dietro” lo specchio è speculare rispetto alla superficie riflettente: è il mondo tridimensionale al di là dello specchio che in realtà ha subìto un ribaltamento geometrico lungo la normale della superficie (l’asse corrispondente alla direzione davanti-dietro), tanto che quando guardiamo la superficie di uno specchio vediamo un’immagine che dipende sempre dal nostro punto di osservazione, e sarà diversa da qualunque altro punto. Lo specchio non presenta quindi un’immagine ribaltata del mondo in cui ci troviamo, ma una infinità di potenziali ulteriori immagini del mondo. Attraverso lo specchio “siamo in una relazione geometrica e causale diversa con il mondo reale: non ne percepiamo solo un’immagine, vediamo tutto il mondo in una diversa prospettiva.”¹

E’ per questo che artisti come Van Eyck e Velázquez individueranno nello specchio una finestra magicamente aperta su altre dimensioni, e grazie ad essa, nel Seicento, sensi e coscienza interiore potranno apparire come le due facce di un’unica medaglia, coniata sotto l’egida del Razionalismo.

Ma dobbiamo procedere per gradi, prima di conoscere il significato più profondo che il secolo del Razionalismo vorrà legare alla figura simbolica dello specchio, prendendo ora in considerazione essa sola, come oggetto della nostra analisi, come appartenente a un universo conosciuto e familiare all’uomo da sempre, derivante da un “campo percettivo” ampiamente presente e diffuso in natura: dall’acqua (da cui la locuzione “specchio d’acqua”) alle lastre di ghiaccio, dai cristalli a qualsiasi altra superficie riflettente, che divenne terreno di conquista dell’uomo non appena si giunse alla lavorazione dei primi metalli, la natura ha destinato alle immagini un territorio privilegiato, tutto per loro, protetto e impenetrabile da qualunque altro fenomeno (nello specchio non si riflette il suono).

E sarà proprio l’acqua per prima, che Talete indicherà come origine e grembo di tutte le cose, ad offrire tutta la sua superficie, l’unico “confine stabile” della sua natura proteiforme, all’immagine del sole. Un’immagine che iniziò a corrervi sopra appena squarciata la notte dei tempi, mentre l’astro si levava nel cielo o sprofondava nella notte: la prima immagine comune a tutti i popoli di mare, tanto da poter fare il “salto” ed entrare nella storia grazie proprio ad uno di essi, quello dei Siracusani, guidati dall’ingegno dell’astuto Archimede. Sarà lui a trasferire questa capacità riflettente della materia in campo militare con i famosi specchi ustori (un trasferimento che implica una notevole comprensione semantica e testimonia un’appropriazione “culturale” dell’ente specchio. Una conquista tanto importante da aver fatto sentire alla storia (si legga leggenda) il bisogno di scomodare l’autorevole figura dello “scienziato” siceliota, al fine di scongiurare l’atroce castigo degli dei subìto invece dal precedente eroe mitico, Prometeo, che aveva osato sfidare gli dei regalando agli uomini un potere non loro, enorme come quello del fuoco.

Un mondo, quello mitologico, che non perdona però mai all’uomo il peccato di ùbris, e non basta il genio di Archimede per sfuggire la condanna, che impietosa cala destinando l’umanità a specchiarsi in eterno senza riconoscersi, tanto da suonare ora come monito quel Γνῶθι σεαυτόν (gnôthi seautón) iscritto sul tempio dell’Oracolo di Delfi. Nasce così la figura di Narciso e, subito dopo, la battaglia per liberare l’uomo da questa gabbia di cecità.

Una battaglia affidata all’arte, che da quel momento incrocerà con lo specchio un destino comune: un destino fatto di continui, coraggiosi, instancabili tentativi di liberare l’uomo dalla sua gabbia aggrappandosi alla sua sete di conoscenza interiore: nasce l’autoritratto. Un destino che porterà lo specchio a diventare una vera e propria figura simbolica del cammino evolutivo dell’uomo, e che, attraverso superfici lisce o deformanti, indicherà sempre un “mondo altro”, un mondo in cui potrà svelarsi una conoscenza ulteriore. La serie di esempi è foltissima: dal celebre ritratto dei coniugi Arnolfini, in cui lo specchio convesso in realtà cela l’autoritratto di Van Eyck, a quello deformato di un giovane Parmigianino che sembra ancora cercare la propria identità, ai giochi virtuosistici dei fiamminghi, la cui rappresentazione è deformata ad arte, in modo da tornare riconoscibile solo se vista attraverso uno specchio, adeguatamente inclinato rispetto alla superficie del dipinto (è il caso dei numerosi teschi, che in tal modo stanno a indicare una realtà che va oltre la vita e la realtà visibile che in essa appare), fino alla emblematica sfera di Escher, in cui tutto il visibile viene concentrato in una mano.

Lo specchio, dunque, non rappresenta tanto una grande possibilità di espressione per il massimo virtuosismo dell’artista, quanto la superna vetta da cui proiettare un’intima visione su un mondo privato e personale, che potremmo considerare una prima, ancorché embrionale, “consapevole interpretazione fenomenologica della realtà”. Certo è che a questa conquista giunge consciamente l’arte contemporanea, come prova l’opera di Michelangelo Pistoletto, la quale, proprio grazie alla dinamica percettiva offerta dallo specchio, riesce a creare un meccanismo di identificazione tra spazio reale e spazio riflesso, che crea un continuum non solo percettivo, ma ontologico, tra le due realtà. Solo una, quella di Pistoletto, tra le innumerevoli ricerche artistiche che nel contemporaneo assumono lo specchio come figura simbolica², e che spaziano nelle più varie direzioni; basti citare a titolo di esempio Arte allo specchio della Biennale ’84, in cui compare un artista come Omar Galliani, che abbiamo considerato in altre analisi, il quale, grazie all’interesse per la figura simbolica dello specchio, ci permette di vagliarne l’opera sotto la “lente iconologica”.

Ma prima di passare a indagare i temi della riflessione e della coscienza del sé attraverso la lettura di due opere particolarmente rappresentative, vogliamo soffermarci brevemente su uno dei primi e più importanti casi in cui l’arte e le neuroscienze collaborano strettamente, e che sembrano dipingere un futuro scenario epistemico comune: l’analisi della dinamica percettiva in relazione alla attività dei neuroni-specchio.

I neuroni-specchio sono particolari cellule che si attivano nel guardare i movimenti e le reazioni emotive di un altro individuo e funzionano da motore della partecipazione: sollecitano in quel momento i medesimi centri cerebrali che sarebbero coinvolti se noi stessi ne fossimo i protagonisti. I neuroni specchio testimoniano le ragioni fisiche del riconoscimento degli altri, delle loro azioni e perfino delle loro intenzioni. Come spiega Giacomo Rizzolati, il noto neuroscienziato che ne ha diretto l’identificazione scientifica, “si trovano nelle aree motorie e descrivono l’azione altrui nel cervello di chi guarda in termini motori”.³ Tutto questo ha immediate conseguenze sulla percezione, e quindi sull’arte, in quanto “si è visto che molti neuroni del sistema motorio rispondono a stimoli visivi […] che innescano una comprensione immediata dell’altro senza bisogno di mettere in gioco processi cognitivi superiori. […] La stessa cosa capita per le emozioni. […]

Questo permette di uscire da un concetto mentalistico e freddo, riportando tutto al corpo. «Io ti capisco perché sei simile a me». C’è un legame intimo, naturale e profondo tra gli esseri umani. «Ama il prossimo tuo come te stesso». – e per quel che riguarda la sfera artistica – “abbiamo compiuto esperimenti su quel che producono, a livello neuronale, le opere d’arte, prendendo delle statue greche e deformandole appena: neurologicamente non provocavano più lo stesso esito.

L’arte attiva l’insula, la regione delle emozioni. […] Essa è il punto di contatto tra il mondo cognitivo e quello emozionale più primitivo”.⁴ Le emozioni di base secondo le neuroscienze (Damasio) si trovano “codificate” nel tronco dell’encefalo, una struttura molto arcaica, il che significa che “la parte emotiva viene prima delle altre, nello sviluppo di una specie di io: l’io primario non pensa, ma reagisce e si emoziona”.⁵

Ma quando si parla di specchio ci si scontra inesorabilmente con la figura di Narciso, e lo scienziato avverte: “Il narcisismo va nel senso opposto dei neuroni specchio, essendo l’io, per il narcisista, l’oggetto del proprio amore, e non il prossimo”.⁶ Una forma di cecità vera e propria (anche a livello fisiologico), che l’arte combatte con tutte le sue armi.

Las Meninas - Diego Velázquez (1656)

Las Meninas – Diego Velázquez (1656)

Analisi iconografica e iconologica:

Diego Velázquez (1599-1660), il “pittore filosofo” del XVII secolo, che lavora alla corte di re Filippo IV di Spagna, mostra un’inaspettata attenzione tanto per il mondo al di là delle rassicuranti cortine cortigiane, quanto per quello dell’animo umano. E’ quest’ultimo, in effetti, il vero oggetto della meditata ricerca dello spagnolo, un uomo che al mondo appartiene, e a quel mondo guarda con sguardo indagatore, che non distoglie quando incontra la dura realtà degli umili, o quella artificiale della corte, né più ancora, quando s’immerge in quella inafferrabile del sogno (dentro la cui prospettiva onirica, che spesso diventa mitologica, incornicia poi tutta la sua poetica).

Non si può dimenticare che sono questi del primo Seicento, gli anni in cui si forgia la visione moderna della mente. Una mente che si manifesta come “teatro cartesiano” sul quale può ora essere rappresentato il mondo esterno; e la corte ben si presta a diventare così lo specchio delle rappresentazioni teatrali di Shakespeare. Uno spettacolo che viene messo in scena con i colori dell’esperienza fenomenica. Iniziano ora a circolare nelle corti europee le tesi di Cartesio e Galileo, mentre arte e letteratura scoprono gli stessi continenti, e così, mentre Velázquez dà fondo al suo immaginario rappresentativo, Cervantes dedica un poema all’umiltà umana (Il don Quijote de la Mancha), e Calderon de la Barca eleva un inno al sogno (La vita è sogno). Due continenti, quello della realtà e quello del sogno, i quali, come l’esistere e l’apparire, trovano nello specchio immediata corrispondenza.

Velázquez, che ne diventa il maggior interprete in pittura, sfoggia una capacità rappresentativa dei giochi di specchi da rischiare di esser tacciato di virtuosismo, se non si palesasse immediatamente la natura della sua ricerca: una profonda meditazione di carattere empirico e intuitivo insieme.

E’ nella celeberrima tela de Las Meninãs che Velázquez cattura per la prima volta nella pittura in modo esplicito, attraverso la metafora dello specchio, il mondo interiore e non il mondo esterno. Quello che ci appare non è la realtà e nemmeno la realtà riflessa da uno specchio, ma la realtà vista da dentro uno specchio. Velázquez completava quest’opera nello stesso torno di anni in cui Galileo, Keplero e il gesuita Scheiner gettavano le basi dell’ottica sperimentale, e Cartesio e Locke costituivano la loro ontologia su un nuovo rapporto tra soggetto e oggetto. Per questo motivo Las Meninãs è parso da subito un quadro programmatico, quasi un trattato filosofico, una sintesi di problemi metafisici e scientifici che riusciva a esprimere meglio di qualunque altra tesi lo Zeitgeist, lo spirito dell’epoca. Un atto speculativo, in realtà, che porterà l’arte a un nuovo grado di consapevolezza poietica.

Guardando Las Meninãs la lettura iconografica lascia quasi subito il passo a quella iconologica: non appena infatti la materia e il pigmento di Velázquez scoprono la luce di Caravaggio e vi s’intessono, si affaccia al mondo una nuova verità.⁷ L’interpretazione classica vede al centro della scena l’infanta Margarita, circondata dalle sue damigelle, che corrisponde al microcosmo dorato della corte. Poco più in là, spostandoci verso il margine del quadro, si incontra il mondo della natura: un pensoso cane che sta per essere riportato alla realtà dal calcio di un monello e subito dietro una nana. Una

realtà che si palesa subito crudele, ma a cui risponde una natura madre e protettiva, in quel cono di luci e ombre pacate che accolgono le due figure, e che lascia intravvedere tutta la dignità e il diritto di stare al mondo che riserva alle sue creature. Dall’altra parte l’occhio che indaga la natura, l’artista, che è Velázquez stesso, il quale è intento a fermare sulla tela tutte le molteplici realtà di cui è costituito il visibile. Una tela grande esattamente come il quadro che abbiamo di fronte. E questo elemento fa avanzare una seconda possibilità di lettura. Quella classica vorrebbe ora che il pittore stia ritraendo il re e la regina, come starebbe a indicare lo specchio sullo sfondo, e quindi noi spettatori, trovandoci proprio al loro posto, non solo possiamo identificarci in loro, ma saremmo innalzati al grado di “reggenti del mondo”, il mondo visibile sulla tela, con tutto ciò che ne consegue: da ruolo di osservatori, a nuovo soggetto cui tutta la rappresentazione soggiace; alla possibilità metafisica di conoscenza del mondo al di là. Ma, dicevamo, vi è una seconda, intrigante, ipotesi: Velázquez starebbe ritraendo esattamente l’immagine che vediamo grazie ad uno specchio delle dimensioni stesse della tela (è questo l’indizio). A questo punto inizia una “ricorsività” dell’immagine speculare teoricamente infinita; un gioco di rimandi che apre a realtà e dimensioni altre, in cui siamo calati noi per primi, che ci accorgiamo solo ora di guardare il mondo da dentro lo specchio.

Questa consapevolezza cui ci porta l’opera di Velázquez, ci permette di considerare un ulteriore aspetto: quello di inclusione – esclusione, di interno – esterno. In effetti anche la retina può essere considerata uno specchio della realtà, al di là del quale abita la nostra mente. “Mentre siamo esterni a tutti gli specchi, nel caso della retina ci troviamo dall’altra parte dello specchio.”⁸ Ma è osservando Las Meninãs che prendiamo atto di questa duplice realtà. Tutta la scena è rappresentata in uno spazio semi-chiuso, uno spazio che si apre sullo specchio in fondo, e rimanda a se stesso (un rimando autoreferenziale ‘interno’). Poi, di fianco, una porta viene aperta su un altro spazio, da cui proviene una luce abbagliante che non lascia intravvedere altro: una luce troppo potente per essere reale, e che sembra poter scaturire solo da una dimensione superiore, come il mondo abitato dalle Idee platoniche. Il microcosmo della corte, la Mente cartesiana costellata d’immagini⁹ si apre ora a quell’universo inafferrabile coi sensi, ma appena un passo al di là.¹⁰

E così, mentre il Seicento si apre alla conoscenza del mondo fisico grazie a Cartesio, Locke e Galileo, notiamo solo che alla nuova formulazione ontologica dei tre filosofi non era scritto dovesse corrispondere il metodo empirico messo a punto da Galileo, ma fu proprio questo ad imporre al mondo l’ontologia razionalista, dando vita al “pensiero scientifico”), Velázquez getta la sonda verso l’invisibile universo interiore, e lancia un testimone che la scienza saprà raccogliere solo due secoli più tardi, con i primi studi psicanalitici.

Disegno Siamese - Omar Galliani (2007)

Disegno Siamese – Omar Galliani (2007)

Analisi iconografica e iconologica :

Se l’opera di Omar Galliani offre alla grande tradizione occidentale una nuova apertura semantica verso oriente in chiave disegnativa¹¹, si confronta poi con la figura simbolica dello specchio per muovere un affondo all’interno dell’animo umano.

Si ha così il ciclo delle figure siamesi, una approfondita serie di disegni e dipinti con la quale il maestro s’interroga audacemente sul rapporto esistenziale con l’altro.

Grazie a una sottile rielaborazione delle figure connesse alla iconologia dello specchio, vediamo una raffinata interpretazione del tema del doppio accanto all’evocazione attualizzante del mito di Narciso, portato lui a confrontarsi col mondo contemporaneo e a chiedersi: “Congiunzioni di carne, identità pervase dal dubbio di esserci oggi? domani? uguali? differenti? Specchio di vanità e vana speranza di ritrovarsi nella corsa infinita della congiunzione con l’altro da sé”. (Omar Galliani)

Sembra anche di veder ricomparire, nel gioco di specchi del tempo, come un’eco, quel 1915, quando Kasimir Malevic nel Manifesto del Suprematismo scriveva: “Dovetti abbandonare il mondo della volontà e rappresentazione in cui avevo vissuto e creato e nella cui realtà avevo creduto. […]

Ho riconosciuto che la cosa e la rappresentazione erano state prese per l’immagine stessa della sensibilità, e ho concepito la falsità del mondo della volontà e della rappresentazione”.

Note bibliografiche:

1 – Manzotti R., Psicologia della percezione artistica, Arcipelago Edizioni, Milano, 2007, p.190.

2- intesa nei termini di Cassirer. Si fa presente che Cassirer parla di forma simbolica assumendo il significato di insieme di processi semantici, mentre noi utilizziamo il termine figura simbolica, relativamente all’idea di specchio, intendendo con essa il rimando, di volta in volta, ad un unico processo semantico.

3 – da la Repubblica del 27 agosto 2012, articolo p.39.

4 – Ibid.

5 – Ibid.

6 – Ibid.

7 – solo Velázquez sarà in grado di capire razionalmente il genio caravaggesco. L’altro gigante del Seicento, Rembrandt, lo intuirà, non avendo mai visto l’opera del lombardo; un mistero ancora insoluto tra i tanti che l’arte conserva. Infine il “bizzarro” Georges de la Tour, anche lui un “caso aperto”. Solo loro potranno dirsi i veri eredi del messaggio di Caravaggio.

8 – Manzotti R., ibid., p.190.

9 – il riferimento metaforico è stato visto da Kemp M., La scienza dell’arte. Prospettiva e percezione visiva da Brunelleschi a Seurat, Giunti, Milano, 2005.

10 – Manzotti R., Psicologia della percezione artistica, Arcipelago Edizioni, Milano, 2007, pp.188-195.

11 – è il tema del numero di settembre, cui rinviamo per una trattazione più ampia.