Venere divina armonia sulla terra tra Natura, ombra e bellezza

a cura della redazione


A Mantova, a Palazzo Te, dal 12 settembre al 12 dicembre 2021, il terzo capitolo intitolato “Venere, Natura, ombra e bellezza” appartenente alla rassegna “Venere divina – Armonia sulla terra”, prodotta e organizzata da Fondazione Palazzo Te e Museo Civico di Palazzo Te, e promossa dal Comune di Mantova con il patrocinio del Ministero dei Beni e Attività culturali, e con il contributo di Fondazione Banca Agricola Mantovana.

Il progetto si avvale anche di un comitato scientifico composto dal direttore della Fondazione Palazzo Te, Stefano Baia Curioni, da Francesca Cappelletti, direttrice della Galleria Borghese, da Claudia Cieri Via, docente ordinaria di Storia della Critica d’Arte e di Iconografia e Iconologia all’università La Sapienza, e da Stefano L’Occaso, direttore del Palazzo ducale di Mantova.

Afrodite velata, II secolo a. C marmo pario con patina giallastra 136.5 x 30 x 45 cm Mantova, Comune di Mantova, in deposito presso Palazzo Ducale, Galleria dei Mesi, inv. IG 6770
Afrodite velata, II secolo a. C marmo pario con patina giallastra 136.5 x 30 x 45 cm Mantova, Comune di Mantova, in deposito presso Palazzo Ducale, Galleria dei Mesi, inv. IG 6770

Il terzo appuntamento, ripercorrendo le radici iconologiche e iconografiche del mito di Venere sulla scorta dell’insegnamento warburghiano veicolato da Gertrud Bing, sua infaticabile collaboratrice che progettò senza vederne la luce il volume Gesammelte Schriften pubblicato per la prima volta nel 1932 (la versione italiana La rinascita del paganesimo antico esce nel 1966), e dalla approfondita conoscenza in materia della professoressa Cieri Via, si articola in nove sezioni. Nella prima sezione, Venere e il Nachleben der Antike, si incontrano monete recanti l’effige di Venere genetrix, madre di Enea nonché protettrice della gens Julia, e i prototipi della statuaria classica quali la Venere Anadiomene, la Venere pudica, la Venere velata, la Venere accovacciata, cui hanno attinto a piene mani gli autori rinascimentali, da Botticelli a Tiziano. In particolare si segnala l’Afrodite velata del II secolo a. C. oggi conservata presso i depositi del Palazzo Ducale di Mantova, la quale fu acquistata a Roma da Giulio Romano il quale la utilizzò come modello a Palazzo Te. Da notare l’effetto bagnato del panneggio, aderente al punto da far risaltare le fattezze del corpo femminile. A

La seconda sezione, Venere e le favole antiche, introduce il visitatore nell’immaginario fiabesco della dea dell’Amore codificato negli Inni da Omero (I, II ad Afrodite), cristallizzato dalle Metamorfosi (8 d.C.) di Ovidio, teatralizzato da La Giostra di Angelo Poliziano (1478), quindi, successivamente, impreziosito dall’Adone (Parigi, 1623) di Giovan Battista Marino. Il sinuoso e florido nudo femminile sulle cui spalle scendono, sciolti, i lunghi capelli biondi diventa il modello diffuso non solo per Venere, come è godibile nei dipinti degli artisti veneti del XVI secolo, ma anche per altre figure femminili della mitologia tra cui Andromeda, raffigurata nel quadro del Cavalier d’Arpino, e permane nella trasposizione cristiana nel manoscritto francese del XV secolo.


 Cavalier d’Arpino (Arpino, 1568 – Roma, 1640) Perseo e Andromeda, 1594-95 olio su tela 51x38 cm Roma, Accademia Nazionale di S. Luca, inv. 0221 Replica di bottega registrata nella collezione Sacchetti nel 1639, quindi nelle collezioni capitoline nel Settecento e collocato in un gabinetto secreto perché ritenuto poco decente. La sua iconografia deriva dal mito elaborato da Giovanni Andrea dell’Anguillara nella sua traduzione delle Metamorfosi del 1561, come rivela la presenza di Pegaso, frutto della contaminazione con l’Orlando Furioso
Cavalier d’Arpino (Arpino, 1568 – Roma, 1640) Perseo e Andromeda, 1594-95 olio su tela 51×38 cm Roma, Accademia Nazionale di S. Luca, inv. 0221 Replica di bottega registrata nella collezione Sacchetti nel 1639, quindi nelle collezioni capitoline nel Settecento e collocato in un gabinetto secreto perché ritenuto poco decente. La sua iconografia deriva dal mito elaborato da Giovanni Andrea dell’Anguillara nella sua traduzione delle Metamorfosi del 1561, come rivela la presenza di Pegaso, frutto della contaminazione con l’Orlando Furioso

Venere, impalmata da Paride, è la dea della Bellezza e in quanto tale la bellezza per antonomasia, tant’è che Cesare Ripa nella sua Iconologia (1593) connota “Venustà” con i suoi attributi. Venere e la bellezza della pittura è, quindi, il tema, al centro della terza sezione, illustrato dalle opere di Samacchini, pervase da un soffuso erotismo, e di Tiziano, dove la bellezza della pittura passa attraverso la morbidezza del gesto con cui Venere benda Amore davanti a un Anteros un po’ perplesso mentre è assistita dalle ninfe Dori e Armilla, e sfocia nella tavolozza raffinata dei colori, già sfaldati, che dai panneggi purpurei si accordano con le tinte brune del paesaggio al tramonto incorniciato dalla finestra. Eros e Anteros sono presenti anche nella tela di Veronese ispirato al volume cinquecentesco di Vincenzo Cartari, forse pendant di un’altra opera osservata in casa Sanudo. In questa sezione si incontra il topos iconografico di Cupido cieco, caro alla sensibilità neoplatonica come rilevato da Erwin Panofsky che nei suoi Studi di iconologia, dopo aver ripercorso le fonti letterarie e figurative classiche da cui espunge il motivo del fanciullo bendato affronta i testi medievali italiani, tra cui la Genealogia deorum di Boccaccio, e stranieri dove compare e si diffonde quale figura allegorica dell’amore che “priva gli uomini degli abiti e della saggezza” – laddove la cecità, per la morale medievale, è generalmente associata al male – e come tale esso esprime il lato oscuro della madre, sebbene vi siano casi, soprattutto in epoca rinascimentale, di ibridazione col classico Cupido, come ad esempio lo dipinse Piero della Francesca in S.Francesco ad Arezzo. A Cupido bendato (l’amore mondano) il neoplatonismo contrappone il dio dell’Amore, inteso quale amore sacro.

 Paris Bordon (Treviso, 1500 – Venezia, 1571) Venere, Amore e un satiro (o Giove e Antiope), XVI secolo Olio su tela 99 x 146 cm Roma, Galleria Borghese, inv. 119. Dipinto descritto in Manili (1650) nel casino di Villa Borghese con l’attribuzione a Paris Bordon.
Paris Bordon (Treviso, 1500 – Venezia, 1571) Venere, Amore e un satiro (o Giove e Antiope), XVI secolo Olio su tela 99 x 146 cm Roma, Galleria Borghese, inv. 119. Dipinto descritto in Manili (1650) nel casino di Villa Borghese con l’attribuzione a Paris Bordon.


La quarta sezione, Venere e la leggerezza della ninfa, può intendersi come un omaggio agli studi compiuti da Aby Warburg (Amburgo, 1866 – 1929) sul tema. Infatti, fu nell’affrontare il soggetto iconografico della ninfa che l’autore per la prima volta estrapolò la figura dal suo contesto formale, isolando il motivo che quindi diventava autonomo, come era uso fare nel Rinascimento quando gli artisti isolavano un elemento presente in un bassorilievo classico per trasporlo nelle loro composizioni. La ninfa quindi rientra in una di quelle Pathosformellen, in origine espressive di uno stato emotivo quindi formulae classiche codificate in epoca umanistica. Nel pannello dedicato al tema della «ninfa» l’illustrazione della Tavola 46 del Bilderatlas Mnemosyne 1929 è corredata dal confronto con un bassorilievo greco IV secolo a.C. e due fotografie delle danzatrici Loïe Füller nella Serpentine Dance, (1897) e Isadora Duncan in posa al Teatro Dioniso di Atene (1904). Dal pannello, si legge che “L’interesse per la ninfa da parte di Warburg prende corpo intorno al 1900 in occasione della corrispondenza con un suo amico olandese André Jolles, proprio a proposito dell’affresco di Ghirlandaio (a Santa Maria Novella). Nel prendere le distanze dalle posizioni estetizzanti del suo interlocutore, Warburg dichiara il suo interesse filologico e storico per l’immagine della ninfa che negli stessi anni dava vita alla Gradiva del racconto di Jensen in cui il movimento della fanciulla che incede diventa una trasposizione dell’immagine artistica nell’immaginario psicologico dell’archeologo Robert Hanold, il protagonista del romanzo, oggetto di sperimentazione per le richerche sull’inconscio di Freud. La ninfa si pone anche come espressione di liberazione dai vincoli convenzionali della società diventando forma simbolica dell’emancipazione della donna, come rivela il passaggio dalla ninfa all’antica a quella rimascimentale sopravvissuta nelle immagini delle danzatrici di inizio Novecento come Isadora Duncan e Loie Füller”. La sezione è rappresentata dal foglio miniato di Alexandre Bening con Betsabea, eroina biblica del Vecchio Testamento (II Libro di Samuele), al bagno.

Maître de Ramnures (attivo ad Amiens e Bruges tra il 1454 e il 1480) La figure de Venus et comment elle doit estre peinte, XV secolo miniatura Publius Ovidius Naso (Ovidio) (Sulmona, 43 a.C. – Tomi 17-18 d.C) Les Metamorphoses d’Ovide, traduites (en vers français) et moralisées, XV secolo manoscritto miniato 440 x 330 mm Copenhagen, Det Kgl Bibl. Coll Thott399 folio-f.009v
Maître de Ramnures (attivo ad Amiens e Bruges tra il 1454 e il 1480) La figure de Venus et comment elle doit estre peinte, XV secolo miniatura Publius Ovidius Naso (Ovidio) (Sulmona, 43 a.C. – Tomi 17-18 d.C) Les Metamorphoses d’Ovide, traduites (en vers français) et moralisées, XV secolo manoscritto miniato 440 x 330 mm Copenhagen, Det Kgl Bibl. Coll Thott399 folio-f.009v
 Orazio Samacchini (Bologna, 1532 – 1577) Venere che disarma Amore o L’educazione di Amore, 1560 ca. olio su tela 64 x 50 cm Mantova, Museo di Palazzo d’Arco, inv. 1212 Venere, qui raffigurata sul modello della Leda leonardesca, è rappresentata sul bordo di una fontana mentre disarma Amore, secondo il tema, diffuso a metà Cinquecento, dell’Educazione di Amore.
Orazio Samacchini (Bologna, 1532 – 1577) Venere che disarma Amore o L’educazione di Amore, 1560 ca. olio su tela 64 x 50 cm Mantova, Museo di Palazzo d’Arco, inv. 1212 Venere, qui raffigurata sul modello della Leda leonardesca, è rappresentata sul bordo di una fontana mentre disarma Amore, secondo il tema, diffuso a metà Cinquecento, dell’Educazione di Amore.

La quinta sezione, Le ombre di Venere, apre sul lato oscuro della divina forza, a partire dal suo potere astrale di influire sui pianeti e quindi sulle persone ad essi affiliati. Infatti Venere, come ben illustrato nel manoscritto miniato De Sphaera dove è identificabile per via dello specchio che tiene in mano, in astrologia è il secondo pianeta del sistema solare, e governa Toro (domicilio notturno) e Bilancia (domicilio diurno). Il suo influsso è comprensibile osservando sia le figure ritratte ai piedi della sfera immersi in un paesaggio sereno mentre conversano amabilmente, sia i giovani raffigurati nella miniatura attigua dove, attorno e dentro una fonte della vita, sono colti mentre suonano, conversano, ballano, amoreggiano all’interno delle mura di un giardino chiuso (hortus conclusus) e separato dalla città circostante. La sensualità, l’eros, il piacere possono gradualmente condurre colui che in modo incauto vi cede senza freni alla cecità, alla perdizione e alla follia. Al pericolo alludono, ad esempio, le api che escono dal favo di miele nel dipinto di Lucas Cranach, Venere e Cupido con favo di miele, a indicare l’aspetto dolce e amaro dell’amore secondo l’Idillio XIX di Teocrito. L’erotismo, condannato nelle rappresentazioni moralizzanti, emerge come elemento diabolico nelle incisioni di Albrecht Dürer, La tentazione dell’ozioso e Le quattro streghe, e si incarna nella nudità sfrontata delle Tre Grazie di Agostino Carracci, appartenenti alla serie delle Lascivie. Al sedotto, come abbiamo detto, si obnubila la ragione, quasi fosse vittima di un sortilegio o di un filtro magico, e allora ecco che Venere diventa una strega intenta a preparare ogni genere di pozione, come ce la rappresenta Dosso Dossi, o una terribile condottiera di creature infernali, come rappresentata nell’incisione di Agostino Veneziano.

Tiziano Vecellio (Pieve di Cadore, 1488-90 – Venezia, 1576) Venere che benda Amore, 1560-1565 olio su tela 116 x 184 cm Roma, Galleria Borghese inv. 170 Con buona probabilità il dipinto entrò in collezione Borghese nel 1608, ceduto dal cardinale Paolo Emilio Sfondrati a Scipione Borghese. Il dipinto è citato per la prima volta nel 1613 nel poema di Scipione Francucci dedicato alle opere che componevano la raccolta di Scipione Borghese.

La sesta sezione è dedicata a Venere e il risveglio della natura, cui è legato il mito di Flora, come Botticelli rappresentò mirabilmente nella sua Primavera. Dosso Dossi, erede della tradizione veneta cinquecentesca derivante dalla cultura classica, esprime il potere rigenerativo della dea mediante l’incarnato florido della figura femminile, le rose (care alla dea come tramandato nel racconto mitologico di Venere e Adone), la sorgente (fonte battesimale e fonte della vita) e il giardino dove trovano ristoro i viandanti, all’interno di una composizione elegante che denota la destinazione aulica del dipinto. Fanno parte della sezione anche le opere di Nicholas Karcher, dello Scarsellino e di Albani.

Paolo	Veronese	(Verona	1528	– Venezia	1588) Venere	e	Mercurio	presentano	a	Giove	Eros	e	Anteros 1560-1562	ca. olio	su	tela,	150	x	243	cm Firenze,	Galleria	degli	Uffizi,	inv 1890,	n.	9942 Soggetto	tratto	dalla	pubblicazione	di	Vincenzo	Cartari	Le	immagini	de	i	 Dei	de	gli	antichi (Venezia,	1556);	forse	pendant	della	tela	dedicata	al	 mito	di	Eros	a	Anteros	descritto	in	casa	di	Giambattista	Sanudo	da	Carlo	 Ridolfi	in	Le	meraviglie	dell’arte (Venezia,	1648);	forse	di	buon	augurio	di	 matrimonio,	per	la	presenza	di	una	catena	pendente	sul	podio	di	Giove	e	 di	un	albero	di	mele	cotogne.
Paolo Veronese (Verona 1528 – Venezia 1588) Venere e Mercurio presentano a Giove Eros e Anteros 1560-1562 ca. olio su tela, 150 x 243 cm Firenze, Galleria degli Uffizi, inv 1890, n. 9942 Soggetto tratto dalla pubblicazione di Vincenzo Cartari Le immagini de i Dei de gli antichi (Venezia, 1556); forse pendant della tela dedicata al mito di Eros a Anteros descritto in casa di Giambattista Sanudo da Carlo Ridolfi in Le meraviglie dell’arte (Venezia, 1648); forse di buon augurio di matrimonio, per la presenza di una catena pendente sul podio di Giove e di un albero di mele cotogne.

D