GIANNI BRUSAMOLINO – verso una scultura

Nota critica di Marco Marinacci, cameraman Michele Piovesan

Come indica lo stesso artista, due sono le tracce, che per prime si offrono a chi voglia orientarsi nella ricerca poetica del Brusamolino: quella di Marino Marini e quella di Carlo Carrà. E Marini vuol dire, per Brusamolino, la scultura, il senso del pieno e del vuoto, del positivo e del negativo; Carrà, lo spazio scenico. Linee di ricerca che si intersecano nelle Deduzioni Plastiche, mediante le quali, Gianni Brusamolino interroga negli anni ‘70 il mondo intorno a sé, per trovarlo immediatamente ricettivo, in un intreccio tanto arcano quanto rigoglioso, da far riapparire, in forme scultoree, la foresta di simboli nata dai versi di Baudelaire.

Quindi il materiale, la terra, il bronzo. Sapendo che il più nobile – il bronzo – come il più umile – la terra – nascondono forme proprie, mutevoli epifanie dell’Essere, che ne diventano frammenti, lacerti, utili a inquisire l’Essere, l’anima. Da questa ulteriore consapevolezza inizierà anni dopo, nella poetica di Brusamolino, una nuova ricerca, che ha il “segno del sacro”. Un segno maturato e continuamente perfezionato attraverso la tecnica del disegno, acquisita e praticata alla stregua di una disciplina marziale, che coinvolga nello stesso istante e in egual misura spirito e corpo.

Ma la scelta del disegno è qualcosa che coinvolge anche la sfera storica e culturale: diventa una sorta di impronta genetica, una traccia preziosa per individuare una precisa linea artistica nella storia, cui Brusamolino sente di profondamente di appartenere dotato della propria missione, e di cui pertanto egli raccoglie il mandato. Attraverso il disegno, che non è mai abbozzo ma preciso indirizzo semantico, Brusamolino sceglie e definisce l’identità culturale, il piano in cui si deve porre ciascuna opera. Perché la realtà che si viene a presentare con l’opera compiuta è quella pluridimensionale, di uno scultore – questo è in realtà Brusamolino – che alle tre dimensioni aggiunge la quarta: non quella del tempo, inteso come lo intendeva il cubismo, ma dell’evento sintetizzato nella durata della propria dinamica, grazie all’eccezionale prerogativa delle più elevate espressioni artistiche capaci di superare nell’espressione la propria staticità materica.

Nel foglio, che diventa spazio, si mostra allora una vera e propria teofania dell’arte, e, lo spazio, come nel momento del Barocco, assume rilevanza primaria, diviene spazio scenico: il luogo in cui l’opera diviene evento. E’ bene ora precisare una distinzione ben nota ai Greci antichi, quella tra krònos, il tempo logico e sequenziale, acquisito poi dalla cultura romana, e kairòs, il momento dell’evento. Lo spazio offerto dal piano che si apre di Brusamolino è un il luogo in cui a krònos si sostituisce appunto kairòs.

Se, il primo, per intenderci, entra a pieno titolo nella dinamica compositiva cubista, perché Picasso, da buon latino quale egli è (in senso archetipico) non può non riferirvisi, il secondo appartiene propriamente – e unicamente – all’archetipo greco, cui invece si lega l’arte di Brusamolino.

Il foglio si presenta allora come luogo dell’evento, spazio scenico in cui si viene proiettati, grazie a una prima sensazione di straniamento, o, più propriamente, di “meraviglia”, che ripresenta una dinamica totalmente aderente alla poetica “barocca”; senonché, dalla tela del Brusamolino, emerge un elemento in più: il sacro. Si viene così trasportati in un nuovo spazio scenico sacrale, che appare davanti a noi come il naòs di un tempio greco, appena superato il peristilio di colonne. La stessa funzione, quella di una partizione tra spazio sacro e profano, cui assolvono le cornici, nei quadri di Brusamolino, così come il contesto ambientale, per le sculture. Tanto che si fa sempre una certa difficoltà a superare il limite, per entrare nel sacello dell’arte di questo raffinato artista: le cornici catturano lo sguardo, che non riesce facilmente a eluderne la difesa, mentre le sculture sfuggono verso una quarta dimensione che si avvinghia su di esse, e non ne permette la fruizione, se non inseguendole con un movimento continuo, come un infinito piano-sequenza cinematografico che vi gira intorno (e qui si percepisce quanto la poetica epistemologica di Brusamolino si stacchi dalla dinamica messa a punto dal cubismo).

Forse solo nel museo (inteso naturalmente non in senso fisico architettonico, ma nella sua identità di comunicatore di storia e cultura) Brusamolino sente di poter liberare la propria arte; uno spazio sacro in sé, in cui non servono più schermi e difese. E’ così che il museo si candida a diventare luogo dell’evento, lo spazio in cui l’arte può finalmente palesarsi nella sua interezza, perché calata in un ambiente ideale, che ne accoglie la natura e la dischiude a una percezione sensoriale nuova, che ne può fruire come in nessun altro contesto. Questa la sfida che lancia l’arte di Brusamolino, e che, crediamo, potranno raccogliere quanti sapranno fare del museo un nuovo tempio, in cui si rinnova il messaggio sacro dell’arte.