Il corpo e l’estasi

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“Un giorno mi apparve un angelo bello oltre ogni misura. Vidi nella sua mano una lunga lancia alla cui estremità sembrava esserci una punta di fuoco. Questa parve colpirmi più volte nel cuore, tanto da penetrare dentro di me. Il dolore era così reale che gemetti più volte ad alta voce, però era tanto dolce che non potevo desiderare d’esserne liberata. Nessuna gioia terrena può dare un simile appagamento. Quando l’angelo estrasse la sua lancia, rimasi con un grande amore per Dio”. Dal “Libro de su vida” (autobiografia di Santa Teresa d’Avila)

L’arte barocca nasce in risposta a un’esigenza fondamentale derivante dalla consapevolezza, maturata durante la lunga riflessione conciliare che investe la Chiesa Cattolica nella seconda metà del XVI secolo, che l’anima, nel suo passaggio terreno, è indissolubilmente legata al corpo. Tanto che nella liturgia controriformata il mistero eucaristico della transustanziazione assume ruolo principe, proprio in contrapposizione alla nuova fede protestante, che non lo riconosce.

Dovendo dunque fornire all’anima un corpo, il Barocco si interroga su quale forma debba avere tale corpo, per dimostrare di essere espressione della parte interiore divina. Ogni azione, ogni tratto, ogni particolare corporeo avrebbero dovuto render ragione di questa partecipazione dell’anima. Quindi non ci deve stupire che il momento in cui il corpo esplicita prepotentemente e al massimo grado tutte le sue sensorialità, come nell’orgasmo, possa costituire per il Barocco anche il momento più significativo per rappresentare la massima espressione a noi percepibile dell’anima; e sarà chiamato estasi.

Ma c’è un ulteriore motivo per cui la poetica barocca, proprio nella sua componente artistica figurativa, va considerata come un unicum, e un’occasione irrinunciabile di approfondimento nella conoscenza relativa al corpo umano, che perfino le scienze più attuali, da sole, non possono offrire. Ciò deriva dal fatto che il percorso sensoriale dell’orgasmo è analogo per molti versi a quello estetico, tanto che il piacere derivante dalla percezione dell’opera d’arte è stato considerato da alcuni neuroscienziati come “il preliminare visivo dell’orgasmo” ¹, in quanto la connessione tra centri visivi ed emozionali assicura che lo stesso “atto di cercare la soluzione” (atto che si costituisce di innumerevoli interpretazioni parziali e altrettante conseguenti decifrazioni, già autonome e a se stanti) sia piacevole, e che la rappresentazione artistica sembra permettere a tale meccanismo di attivarsi ancor più efficacemente che nell’ambiente naturale.Bernini-Santa-Teresa

Quando infine si presenta la soluzione di questa dinamica interpretativa, scopriamo che in realtà è solo l’ultima, in senso cronologico, delle tante altre soluzioni trovate nella ricerca percettiva e interpretativa delle immagini (forme e colori). Vi è un caso in cui però la soluzione ultima si offre simultaneamente insieme a tutte le altre, anzi, coincide con loro: è il percorso di conoscenza mistica, in cui la ricerca di senso sembra avere a che fare con una dimensione superiore, e a questa dimensione appartiene un senso unitario e non divisibile, in cui sembra appunto di poter pervenire a tutte le soluzioni in un unico istante: il momento dell’estasi.

Seppure le attuali neuroscienze non abbiano ancora formalmente incluso lo “stato di estasi” nel novero degli strumenti conoscitivi afferenti a un percorso fisiologico-sensoriale normalmente iscritto nell’apparato funzionale umano ², esso può invece diventare processo conoscitivo estremamente prezioso, e a volte addirittura indispensabile, per l’arte. Si pensi anche a come in Occidente il sentire non sia inteso in relazione a una facoltà cognitiva-intellettiva, mentre in Oriente è proprio attraverso la sensibilità rivolta a cosmo e natura che si generano diversi gradi di conoscenza. Tanto che in occidente si è sentita la necessità di distinguere tra sentire dei nervi e dell’intelletto, come sta ad indicarci la semantica legata al verbo latino percipio (intendere, accogliere in sé), da cui percezione, appercezione e percetto. Apparentemente opposto sembra invece il significato cui rimanda la parola estasi, cioè uscire da sé (dalla radice ἐξ-ἵστημι).

In realtà fu il genio di Michelangelo Buonarroti a mostrare per primo al mondo quanto alla capacità del materiale di accogliere in sé una forma corrispondesse un’altrettanto forte desiderio da parte dell’artista nel voler liberare quella forma, farla uscire di nuovo dal materiale, attraverso quell’arte del levare (non può sfuggire un’affinità col processo maieutico socratico, un metodo che il padre della filosofia occidentale derivava dalla propria esperienza diretta, essendo lui stesso figlio di una levatrice) che è in ogni senso un “processo estatico”, riportato all’interno della creazione artistica.

Niente, dopo Michelangelo, è sembrato poter rappresentare meglio l’estasi, di quanto potesse fare un materiale che aveva saputo plasmare la sua propria natura, perché fosse resa immortale e visibile a tutti gli uomini. Ora, nel Seicento, il secolo della razionalità, in cui l’uomo aveva ormai consapevolezza di non essere più al centro del mondo, quel marmo avrebbe rischiato di frammentarsi in blocchi inerti e immobili, per finire con l’essere dimenticato in qualche angolo remoto di spazio e di tempo.

Quanto all’immortalità, niente era ormai più irreale dell’idea di un uomo – dio immortale in terra, e la natura immortale del marmo non trovava più alcuna corrispondenza in quella umana. Quel marmo, che con Michelangelo si era scoperto avere forma propria, rischiava ora di generare forme sterili, e se immortali, solo perché mai state vive (in tal senso si esprimerà Roberto Longhi nei confronti dell’arte di Canova).

Bisognava riportare quel marmo e le sue forme al centro della scena, e della storia. Questo il compito che si dà il Barocco. Per prima cosa quindi bisognava “scongelare” il blocco di marmo dalla sua fissa immortalità, così da poter essere nuovamente calato tra gli uomini per natura, e innalzato al cielo per volontà. Ecco allora apparire una nuova forma, viva e calda come il sangue nelle vene, e leggera come una fiamma, che a spirale può danzare nell’aria per raggiungere il cielo. Questa la sfida che raccoglie Bernini.

Analisi iconografica e iconologica

Gian Lorenzo Bernini (1598 – 1680) rappresenta il massimo vertice compositivo e insieme l’ortodossia del Barocco. Santa Teresa d’Ávila, al secolo Teresa Sánchez de Cepeda Dávila y Ahumada (1515 – 1582), religiosa e mistica spagnola, riformatrice degli ordini religiosi e scrittrice, è una delle figure più importanti della Chiesa del Seicento, divenendo presto il simbolo della Controriforma. Nel momento in cui le due ortodossie si incontrano, nasce una delle più potenti cariche di energia vitale fino ad allora apparse in campo artistico, certamente la più sorprendente, perché verrebbe da dire erotica, se non fosse impressa col segno del sacro.

Quando Bernini venne chiamato dal cardinale Federico Cornaro in qualità di architetto e di scultore per realizzare la cappella funeraria della propria famiglia nella chiesa di Santa Maria della Vittoria a Roma, la sua brillante carriera stava vivendo un periodo di offuscamento sotto il pontificato di Innocenzo X. A quella richiesta rispose con tutto l’impeto del guerriero nuovamente chiamato alle armi, e scesa a dar battaglia. E l’arma più affilata del Seicento è il teatro, che ferisce in quel momento, grazie alla meraviglia che è capace di suscitare, più della spada. Chiamando a raccolta tutta la sua inventiva e l’esperienza derivata dall’organizzazione di spettacoli teatrali (ricordiamo che già dal ‘400 erano tra le opere maggiormente richieste agli artisti di corte, come prova anche la biografia di Leonardo), Bernini trasforma letteralmente lo spazio della cappella in un teatro.

Per cominciare egli amplia la profondità del transetto in cui è posta la cappella; poi, aprendo sulla parete di fondo una finestra con dei vetri gialli, pensata per rimanere nascosta dal timpano dell’altare, illumina la scena come con un riflettore, conferendo al fascio di raggi in bronzo dorato che vediamo ora irrompervi, un senso di immediato realismo.

In questo modo la luce che scende sul gruppo sembra rarefarsi e rimanere sospesa nel materiale, come un lungo attimo che enfatizza la straordinarietà della visione. Tutto poi diventa ‘teatro mistico’: la policroma edicola marmorea in cui si colloca il gruppo funge da boccascena del teatro; l’ammasso di marmo su cui poggia la santa levita verso l’alto risucchiato dalla luce e si trasforma in una nuvola vaporosa, come tirata su da chissà quale meccanismo scenico; ai due lati vediamo infine comparire due veri e propri ‘palchetti’ da cui si affacciano i vari membri della famiglia Cornaro, anch’essi risucchiati nella vitalità del marmo. Un evento privatissimo, come l’estasi della santa, diventa in questo modo evento pubblico, ma per un pubblico scelto e ristretto, il solo che possa percepirlo e comprenderlo appieno.

Ma è proprio quel momento intimo, quello di una conoscenza mistica che deriva da precise e dirette sensazioni epidermiche ³, quale è quella vissuta dalla santa d’Avila, effluvio di moti e spasmi che traspaiono dalla pelle del marmo accarezzato così sapientemente da Bernini, che attraverso i secoli si è allargato come un’onda a travolgere non solo il pubblico elitario degli insigni spettatori degli spalti, ma chiunque la guardi.

Note

1) – Ramachandran V.S., Che cosa sappiamo della mente, Mondadori, Milano, 2006, p.53

2) – Panigada-Marinacci, Il percorso dei sensi e la storia dell’arte, Swan edizioni, Milano, 2012, pp.30-39

3) – tale forma di conoscenza sensoriale trova conferma nelle più recenti acquisizioni in campo neuroscientifico. Si veda in tal senso Panigada R., Marinacci M., Ibid., pp.30-39

Bibliografia di riferimento

Neher A., La psicologia della trascendenza, MEB, Padova, 1991.

Venturini R., “Una nuova cultura della mente”, Coscienza e Cambiamento, Cittadella, 1995.