L’eterna avanguardia di Carlo Scarpa

Arte e architettura - Tommaso Cigarini Castelbarco

L’architetto Carlo Scarpa (1906 – 1978) è stato uno dei massimi maestri della moderna museografia italiana. Dal dopoguerra a oggi l’Italia in campo museografico è stata un faro per il mondo intero e ha avuto fra i tanti come maggiori interpreti, oltre a Scarpa, Franco Albini, i BBPR, e Ignazio Gardella. Scarpa attraverso una lunga carriera si è occupato costantemente di museografia, allestendo decine di mostre e trasformando, con estrema cura e maestria, palazzi esistenti, oltre a costruirne di nuovi, ma solo,  è il caso di precisarlo, quando necessario.

Per rivolgere un’attenzione particolare all’aspetto museografico e allestitivo, è necessario evidenziare la poetica di Scarpa, esaminando i suoi due maggiori interventi in tale ambito: il museo di Palazzo Abatellis a Palermo (1953 – ’54) e la trasformazione del Museo civico di Castelvecchio a Verona (1956 – ’64).

A Palermo Scarpa interviene nel medievale Palazzo Abatellis e ne conserva completamente la sedimentazione storica e la spazialità. L’allestimento espositivo diventa parte integrante degli spazi in cui si colloca, e si fonde con l’architettura del palazzo. Le opere esposte, pitture e sculture di epoca medievale, vengono disposte in punti precisi delle sale. Scarpa, osserva per ore le opere da esporre prima di deciderne la perfetta ambientazione nello spazio della sala. Ogni opera deve essere visibile da vicino e da lontano, deve avere la corretta esposizione alla luce naturale, e deve trasformare lo spazio in cui si colloca rendendolo dinamico e vivace. Ecco che le sculture esposte, in marmo bianco, sono posizionate accanto a dei pannelli colorati, fissati a parete, dai quali emerge uno sfondo visivo cromatico (color piombo, verde, azzurro o rosso scuro), che ne esalta il volume, e ne accende l’espressività.

Tale soluzione risveglia la curiosità del visitatore ed esalta le qualità plastiche della scultura. I personaggi scolpiti, santi o persone illustri del medioevo, vennero disposti in modo tale da “guardarsi” fra loro, inscenando così una sorta di silenziosa pièce teatrale, in cui, il visitatore, da semplice comparsa, si senta primo attore nel teatro dell’architettura. A ogni opera fu quindi associato delicatamente il colore che le manca o quello di cui più ha bisogno. L’ “Annunziata” di Antonello da Messina, avvolta in un manto azzurro, è circondata da un pannello foderato di velluto rosso scuro (il colore che “manca” al quadro), a sua volta incorniciato da una parete in ferro e legno sospesa, e rivestita a sua volta di tessuto color crema, che assicura il riposo visivo necessario alla contemplazione dell’opera. L’allestimento interpreta così i desideri inespressi dell’opera d’arte, pur rispettandone l’estrema delicatezza e fragilità. Allo stesso tempo la parete che regge la pittura è disposta in diagonale, accelerando lo spazio della sala e rendendolo più grande.

Nel Museo civico di Castelvecchio a Verona Scarpa porta alle estreme conseguenze l’esperienza museografica sperimentata nel palazzo palermitano. Il castello esistente viene svuotato di tutte le superfetazioni storiche, che ne avevano avvilito la spazialità originale, e vengono riportate alla luce la successione di ampie sale, le quali fanno ora percepire la forte massa muraria e la grana dei materiali litici. Le sculture esposte, che occupano la totalità del piano terra del museo, dialogano con il visitatore, e, simultaneamente, con gli spazi interni ed esterni del museo (le sculture guardano spesso la natura che c’è fuori nel cortile). I materiali scelti sono sempre funzionali al dialogo con l’edificio storico: esemplari le campane in bronzo appoggiate sui pavimenti e sui rivestimenti in spesse lastre di marmo rosa di Verona, che dialoga cromaticamente con le pareti in mattone del Castello. Il primo piano del museo è interamente dedicato alle opere pittoriche, anch’esse di epoca medievale.

Qui, i quadri, oltre ad essere appesi alle pareti, spesso diventano parete, in quanto disposti in mezzo alla sala, e sospesi a un’esile struttura in metallo. Arte e architettura diventano una sola cosa. I pannelli che sostengono le opere hanno un telaio in putrelle in acciaio, e sono riempiti di stucco veneziano lucido di vari colori. Anche qui l’opera si completa con la resistenza cromatica dell’architettura. Le pareti e i soffitti sono poi disegnati a pannelli accostati fra loro con un complesso gioco di incastri che ricorda il disegno dei tatami tipico delle case tradizionali giapponesi: la cultura orientale e bizantina che l’architetto veneziano sentiva così vicina a lui. Con Scarpa tocchiamo i massimi vertici della cultura museografica italiana. Le sue opere, quasi sempre indiscutibili capolavori, a sessant’anni di distanza mantengono intatta la forza della loro modernità nel rispetto del contesto in cui si collocano. Una lezione museografica che è all’avanguardia ancora oggi, e che dovrebbe esser presa ad esempio dai giovani architetti di ogni latitudine del pianeta.

(Crediti fotografici Miriam Saavedra)