Il teatro nei luoghi della storia

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Conversazione con Athos Collura (o il suo doppio)

MM: Maestro, sappiamo che il suo interesse per il teatro viene da lontano, fin dalle giovanili collaborazioni in veste di scenografo con mostri sacri del palcoscenico, ma cosa l’ha portata ad assumere la regia del Dittico di due intermezzi comici di Giovanni Battista Pergolesi, di recente andato in scena sul palco dello storico teatro Litta di Milano? E soprattutto, da dove nasce la straripante idea scenografica, che ha portato a una ricollocazione storico-ambientale della scena tanto spaesante da dover richiamare quell’arte spostata teorizzata da Giuseppe Patella, e tanto originale da raccogliere un fragoroso plauso anche dalla critica internazionale?

AC: L’opera altro non è che la sublime fusione di teatro e musica, ove la musica, onnipotente signora dell’etica e della politica, si affranca dal noto vincolo delle unità aristoteliche da sempre sotteso al teatro, recidendo, con un colpo di spada, il nodo della storia. Però da sempre mi è sembrato poco plausibile che i nodi della Storia si sciogliessero a Gordio, mentre ho trovato credibile che ciò avvenisse al centro di un vulcano, dove ci si ritrova facilmente persi nella gora del Tempo.

Il primo dei due intermezzi comici è il celebre La Serva Padrona (su libretto di Gennaro Antonio Federico), per l’opera Il Prigionier Superbo (1733), che ha visto la sua prima rappresentazione a Napoli. Ho sùbito pensato che a proiettarci sulla scena potesse essere la famosa eruzione del 79, nonum kal. septembres. Ecco allora che Napoli è Pompei, e in una cornice di fastose colonne, assistiamo alle schermaglie tra una giovane serva e il suo anziano padrone.

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MM: Capisco l’identificazione Napoli-Pompei, così come con il binomio di arte spostata si intende un’arte decentrata, dislocata, differente, che si dà là dove nessuno l’attende, e che cerca il suo posto nel mondo, così come implica l’attualizzazione storica (un processo ben presente a tutta l’ermeneutica artistica di ambito gadameriano). Ma sembra esserci altro, alla base di questa scelta registica.

AC: Vede, io ho pensato a Vulcano, che all’epoca era un dio, e nonostante la sua collera riuscisse a piegare il ferro più temprato, nulla poteva contro la forza sorgiva di una natura, che continuava a effondere bellezza nel mondo. L’atto primo l’ho visto come un grande sogno, fatto di un’estetica tanto raffinata quanto fragile, tipica di una società sibaritica; un sogno ancorato a una bellezza troppo fragile, come sempre accade nelle stagioni che preludono alla decadenza delle civiltà.

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MM: Purtroppo, guardandoci intorno, anche ai più ottimisti (che godono dell’aurea condizione di essere male informati)… diventa difficile negare di vivere una triste stagione, caratterizzata dalla dispersione di valori consolidati, come quello dell’estetica (ed etica) della natura, che ci ha reso artefici inconsapevoli di un “impoverimento” in cui la stessa arte, e la cultura che ci circondano si sono svuotate non solo del sogno della bellezza, ma sono cadute nel grottesco, in tutte le sue forme. E si vive nella consapevolezza di una crisi che, se è “svolta del mondo che siamo”, sembra proiettarci in un mondo “giunto a vivere la disperazione dell’assenza della speranza” (Eleonora Fiorani).

AC: Infatti è questo il concetto che guida la regia del secondo intermezzo comico, Livietta e Tracollo (su libretto di Tomaso Mariani), per l’opera Adriano in Siria (1734). La volontà di riflettere sul presente, un’epoca che per molti rinuncia al suo senso etico, dove l’umano non ha più cittadinanza, e il soggetto vive la propria frammentazione.

MM: Per chi la conosce, tutta la sua ricerca espressiva artistica sembra rincorrere questo tema: dall’indagine sul codice del kitsch, che diventa l’ambiente innaturale di cui l’uomo sembra doversi circondare per sopravvivere; alla serie del Codex; alle ineffabili “stanze”, divise tra interno ed esterno, tanto surreali da essere iperreali, prima ancora che metafisiche; fino alle inafferrabili visioni del corpo umano, catturate da sequenze fotografiche in cui il processo di anamorfosi sembra l’ultima possibilità rimanente di renderlo catafratto agli assalti della storia (a Flavio Caroli venne spesso imputata una visione millenarista, quando mise di fianco all’uomo di Leonardo quello di Francis Bacon, un essere di cui era rimasto poco più che un grumo di polvere)… Ma come la storia diventa riflessione sul presente?

AC: Quando la si “mette in scena”. Cioè quando la si colloca, davanti a noi, e la si inizia a guardare. Ecco allora che il secondo intermezzo non poteva eludere, quale scena principe, Napoli. Napoli, oggi, dopo la grande catastrofe! Ecco lo specchio della storia, su cui annotava tristemente Taillerand, dopo il 1789: “nessuno saprà più com’era dolce il vivere, prima della Rivoluzione”. Dominano ora la scena una giovane popolana e un ladruncolo di suburra. Tra l’età dell’oro e l’età dell’uomo, ci insegna Vico, c’è un’età di mezzo che, quando diventa intermezzo comico, può mostrarci l’oro nascosto in un forziere, e una serva astutamente sottrarlo al padrone. O vedere trasformato l’oro in piombo, e il forziere divenire una catena da bicicletta, mentre una popolana può derubare un ladro dell’unica virtù che rimane all’uomo, dal tempo degli eroi: l’amore. Ma Vico, da buon napoletano, sapeva bene che la storia è fatta di corsi e ricorsi.

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MM: Lo specchio, vuol dire riflessione, così come i ricorsi alludono a un mitico ritorno. E’ certo che oggi l’emergenza ecologica e la crisi dei saperi hanno reso cruciali il ritorno e la riflessione relativa a un’arte che si interroghi appunto sul proprio senso e posto nel mondo. Ma dove si trova la giusta collocazione di quest’arte tanto necessaria: nell’identificazione, nel processo mimetico, o nella differenza, nella distanza?

AC: Certamente il processo di straniamento porta sempre maggior consapevolezza critica rispetto all’identificazione. Sempre che il primo non diventi distanza, e non indulgere nella seconda non significhi trascurare l’empatia. Qui io ho scelto lo iato: la distanza.

MM: Uno iato tra due scene, che, da intermezzi comici, sembrano in questo modo divenire momenti epici. Uno iato che sembra sconquassare l’armonia musicale di Pergolesi, perché presto ci si rende conto che diventa grido, e poi si trasforma nell’urlo fragoroso della storia. Un urlo che a Napoli non sembra avere niente a che vedere con le gride di manzoniana memoria, ma semmai col loro contrario: la disfatta di ogni legge e regola. E se l’Urlo più famoso che si ricordi è nato dalla fantasia di un pittore norvegese, che guarda i cieli siderali irrorarsi del colore sanguigno derivante dall’eruzione del Krakatoa, qui a Napoli stinge sulle pareti uno sbiadito rosso pompeiano.

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AC: Si sa, la storia dell’uomo è fatta di immagini ricorrenti, eppure mai fisse, e così ogni volta sulla scena lo scarto temporale lascia a monumento – forse a memento – uno scarto ambientale.

MM: In effetti, basta soffermarsi sull’universo dei packaging che crea nuove mitologie, di largo e immediato consumo, per comprendere il ruolo dell’immagine oggi, e del suo ripercuotersi sull’ambiente. Un ruolo a sé in tutto questo sembra dato alla scultura: nella forma classica e monumentale con cui appare sulla scena, sembra essere l’unica iconografia stabile.

AC: Sì, fin quando non s’incrina, si sfalda, cede… e rovina sotto il peso della storia.

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MM: Quindi, verrebbe da pensare che l’unica immagine che possa resistere sia solo “meta-fisica”. Emerge una scena fatta di pure pareidolie, proiettate da una pellicola che si fa pittura in maglie psichedeliche. E’ forse questo l’hic et nunc della tragedia, sempre qui, davanti a noi?

AC: In quest’eterno presente la tragedia si disvela umanissima commedia. E il velo di Maya, è un tessuto di tulle… (si fa riferimento alla proiezione psichedelica sul sipario chiuso, durante il secondo intermezzo).

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MM: Queste immagini proiettate su un tessuto a tulle, oltre al chiaro rimando all’elemento kitsch, sembrano implicare anche una frammentazione del reale, tenuta su da uno strano e articolato ricamo… poco leggibile.

AC: E’ così: mentre la Natura distrugge per creare in forme sempre nuove una bellezza che tende all’assoluto, l’uomo distrugge per lasciare, tra rovine e rifiuti, alcune sparse tracce; ma senza impronta di sé. Spesso non più che lacerti… quasi sempre solo il fantasma della propria essenza caduca.

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MM: Guardando però alla messa in scena, alla vera e propria recitazione, sembra aver costruito un perfetto meccanismo a chiasmo, in cui impera un gioco delle parti, dove le parole gesticolano, i gesti declamano, sempre uguali a se stessi, o al proprio gemello.

AC: Non poteva accadere diversamente per l’arte che ha come patroni i Dioscuri! Gli illustri patroni che ho immaginato subito oggi appiccicati sul muro sgretolato di un angolo di paradiso, al sole di Napoli, con le fattezze plebee delle immaginette sacre. La storia partenopea d’altronde è un lungo filo sottile, teso tra imponenti colonne di marmo… con tanti panni appesi ad asciugare!

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MM: Attraverso lo specchio magico del Kitsch dove – Kundera insegna – “impera la dittatura del cuore”, lo stile pompeiano si tramuta in un caleidoscopio che scinde la realtà in frammenti sempre più ridondanti di un eco onnipresente. Specchi e vetri sulla scena diventano i luoghi in cui si riflette o emergono le immagini e i frammenti delle cose e di noi stessi. In cui, come diceva Merleau-Ponty, “siamo esseri guardati nello specchio del mondo”.

AC: Sono tutti materiali e linguaggi in cui lo sguardo si trasferisce e passa nell’immagine e in cui le cose, straniate dalle immagini e dalle duplicazioni, non sono mai quelle che sembrano.

MM: Questo sembra valere soprattutto per il pubblico. Se infatti si segue la dimostrazione di Jacques Lacan per la quale, nel modello chiastico dell’incrocio degli sguardi con l’incrocio di due triangoli o piramidi visive, così come nell’intreccio tra sguardi e visione e nello stadio dello specchio, entrano in scena i meccanismi dell’assunzione della propria immagine come io ideale o miraggio, il pubblico viene a trovarsi sul palco, inconsapevole protagonista.

AC: E’ per questo che ho pensato all’inserimento della performance, dell’opera-azione dei writers, a fianco dell’opera-musica: per non lasciarlo solo, il pubblico, sul palco.

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MM: In questa proliferazione di linguaggi visivi e musicali, come il suono si dilata fino a diventare eco, l’immagine ci ritorna addosso quale espressione del nostro sguardo. E contemporaneamente lo sguardo si distacca da noi diventando immagine che fluttua liberamente nel mondo. E del resto va ricordato che l’immagine, l’eidolon, ha tre accezioni concomitanti: immagine del sogno (onar), apparizione suscitata da un dio (phasma), fantasma di un defunto (psyche). E’ dunque il doppio o l’ombra.

AC: L’idea del doppio, come per questi due intermezzi, ha un fascino particolare: porta naturalmente a “riflettere”; permette il confronto, il dialogo, la sfida; e implica la misura, la proporzione, che, quando si basa sulla metrica musicale, può anche dare vita a nuove regole auree. Poi dobbiamo ricordare che i fantasmi, in quanto immagini, sono i rappresentanti dell’inconscio, le trame immaginarie o le rappresentazioni in cui si fissano le pulsioni.

MM: Viene da pensare alle macchine celibi, fabbricatrici di sogni in una lingua senza terra e senza corpo, a partire da La Mariée mise à nu di Duchamp e da Les jours et les nuits di Jarry, in cui si iscrive l’abbraccio con il proprio doppio, per dire l’impossibilità della comunicazione, di cui il linguaggio e l’immagine sono 10insieme promessa e fantasma. Forse sarà per questo che, come nella visione di Amleto per il fantasma del padre, di Fussli, in sala il codice dello sguardo del pubblico è ora sbarrato, e subisce un Tracollo? (si fa scherzosamente riferimento alla serie dei Codex, in cui s’impone l’iconografia del codice a barre, e al titolo del secondo intermezzo comico).

AC: Ma questa volta c’é Livietta, a sostenerlo… forse non ci resta che il Kitsch, sarà comprenderne la bellezza, a salvarci?