Conversazione sull’arte con Paolo Schiavocampo
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In occasione della personale “Paolo Schiavocampo tra energia e materia (2010-2016)”, ospitata presso il Palazzo Ducale di Massa, dal 3 al 28 giugno, di cui Tempo e Arte è media partner, Marco Marinacci, in una intervista che rivela la ricerca artistica associata ai diversi periodi biografici, ha ripercorso l’eperienza dell’artista, esponente di punta del movimento informale del secondo dopoguerra ed autore di alcuni tra i progetti più visionari degli ultimi anni. In particolare si ricordi la monumentale scultura “Una curva alle spalle del tempo” inserita nel contesto della Fiumara d’arte in Sicilia, ma anche la progettazione del Parco di Hattingen nella Ruhr. Nell’occasione il maestro esporrà in anteprima assoluta due delle nove pareti monumentali che costituiranno nel loro insieme, una volta terminate, l’ultima e sua più ambiziosa opera, attualmente “work in progress”,e considerata, ormai, dalla critica un vero e proprio testamento artistico e una delle testimonianze più profonde del nostro tempo.
L’evento, curato da Alice Procopio, si inserisce nel più ampio e nobile ambito di un progetto di raccolta fondi a favore della Fondazione Gabriele Monasterio, promotrice prima dell’iniziativa, a cui Schiavocampo ha inteso aderire con l’entusiasmo e la generosità che gli sono innati, donando un suo quadro e 20 suoi disegni, che saranno acquistabili da chi ne fosse interessato (a tale proposito si veda anche: http://www.ftgm.it/index.php/notizie-ed-eventi/364-arte-e-beneficenza-paolo-schiavocampo-per-ftgm).
MM: “Cementi e Arazzi, un ciclo di bottega”. Così è stata definita la tua produzione dell’ultimo decennio, che vede opere realizzate con materiali diversi, dalla stoffa alla carta, al cemento con pigmenti policromi, in aperto confronto dialettico con supporti chiaramente connotati: l’arazzo e la parete. Una produzione che annovera già diversi momenti espositivi, e ha registrato un ampio consenso di critica. Da dove l’esigenza di questa mostra a Massa? Quali elementi intende illuminare?
PS: In primo luogo qui sono presenti tutte le opere che documentano l’ultima fase della mia ricerca, attraverso un percorso omogeneo che si presenta antologico. La mostra è infatti composta di tre elementi: il nucleo centrale s’intitola “La notte, la luna e il muro”, costituito da nove pareti in cemento, di 150 x 200 cm ciascuna, che andranno a formare un continuum narrativo di circa 20 metri, come prevede il progetto unitario, di cui in mostra solo una parte, composta dalle prime due pareti (le altre sette sono in lavorazione – ndr). Unitamente alle tre pareti, a corredo e spiegazione dell’idea originaria, sono esposte le tavole progettuali e alcuni bozzetti dell’intero ciclo. A questo primo nucleo si affiancano due “ipotesi di lavoro”: gli Arazzi e i Cementi; questi ultimi, in numero di sette, si differenziano dalle pareti sia per dimensioni, di 80 x 80 cm, sia per poetica, definita “Ricostruzione”, che non considera i diversi lavori come insieme coeso, ma ciascuno in quanto unità in sé compiuta. Le opere pittoriche su tela, come “Scacchiera”, in cui si ritrova l’idea di ritmo compositivo, sono invece un nucleo a parte, una sorta di premessa a queste mie ultime ricerche.
MM: In questa mostra è percepibile un contenuto costante, qualcosa che riguarda momenti di vita vissuta, nei quali la componente narrativa sembra trovare concretezza. Penso a “Città”, opera in cui le tavole di cemento si dispongono come pagine aperte di un libro, sul quale trova forma un leit motiv espressivo che si rincorre attraverso le differenti tessiture e matericità dei diversi elementi.
PS: In effetti è così… nel mio lavoro passato sentivo la mancanza di un soggetto; in questa nuova produzione ne assume il ruolo l’evento ricostruito. Sia il ciclo “Ricostruzione”, sia quello delle nove pareti nascono infatti da eventi reali tratti dalla memoria. Il primo riprende momenti della gioventù, come “Stazione Centrale”, o “Park Avenue South”, quando ero a New York con Salvatore Scarpitta. Il secondo invece è una memoria recente: il 31 ottobre del 2014 ho subìto un incidente automobilistico, che mi ha portato in ospedale per quattro mesi, durante i quali ho continuato a guardare la luna che si immergeva sulla parete e vi tracciava, notte dopo notte, il suo corso. Una data precisa, che ha segnato il momento di rivoluzione nel mio lavoro, e porta oggi a questa mostra: al vuoto di quel momento ha corrisposto l’impellenza pressante di una nuova ricerca; un’Araba Fenice, che mi ha permesso di risorgere dalle ceneri.
MM: Cenere, cemento, terre: sono poi le materie che utilizzi in scultura, dall’antico significato simbolico e dal grande portato iconologico, in cui si ritrova la componente concreta dell’elemento simbolico. Quanto e come incide l’uso dei materiali nella realizzazione dell’opera?
PS: I materiali sono vari: sabbia, polveri, ossi, metallo, carta, stoffe… pigmenti raramente, azzurro nero o bianco, ma per lo più sono colori naturali: cerco tutti quegli elementi che ci ricollegano direttamente all’ambiente, e ci portano a riappropriarci istintivamente della bellezza che ci circonda.
MM: E’ quanto accade però anche con gli Arazzi, dove prevale un’idea di ritmo che guida l’occhio verso mondi in cui realtà e immaginazione si confondono. Ce n’é uno in particolare, il n.8 – già cabalistico rimando all’infinito, evocante la Grotta di Fingal, corpo frattale continuo della natura – che sembra portare questa ricerca ad aprirsi verso i più ampi scenari espressivi, non ultimo la più attuale Arte Ambientale. Se non sbaglio, è stato proprio al rientro dall’America, nel 1965, che emerge questo indirizzo espressivo. A seguito di una mostra di “Collages”, carte multicolori fissate da chiodi, un critico come Tadini aveva intravisto nelle “sagome astratte di tipo costruttivista” l’indirizzo scultoreo che verrà.
PS: Sì, in quanto, nel mio percorso, la scultura si è avviata per gradi: prima col tornio su legno, poi con un modellista che mi ha introdotto alla meccanica.
MM: Mi viene in mente il ricordo di Vanni Scheiwiller quando, presentando l’esposizione di sette grandi sculture a Pavia, del 1974, prima tappa pubblica del tuo lungo viaggio verso la scultura, indicava quanto fosse stata fondamentale per questo indirizzo espressivo la stagione americana, quando con Scarpitta riparavi carrozzerie di vecchi modelli da corsa. Una scultura, si direbbe, geneticamente votata al linguaggio d’avanguardia, se, come già recitava il Manifesto del Futurismo del 1909, “un automobile da corsa… è più bello della Vittoria di Samotracia”. Un legame intenso che si trasferisce da subito nell’uso dei materiali, in questo caso però alla ricerca di un rapporto col passato: si avverte, quasi si tocca, la presenza costante di una memoria concreta.
PS: Il fatto è che, arrivato alla mia età, il presente non lo vivo più come una scoperta continua, ma la scoperta avviene quando mi immergo nella memoria degli eventi passati. Eventi che rivivo con stupore, ma che trovo oggi anche straordinariamente accoglienti. La “presenza” di cui parli affonda le radici nella rievocazione mnemonica di esperienze realmente vissute, e corrisponde all’evento narrato, elevato in questo modo a “soggetto”; non a “contenuto”, il quale consiste invece nella rivisitazione, in un’attualizzazione, in una seconda vita dell’evento. La tecnica s’impone sobria, per lasciar emergere l’elemento plastico, che deriva dalla mia esperienza di scultore, più lunga, anche in termini di anni e di memorie, rispetto a quella di pittore.
MM: Il concetto di “attualizzazione” richiama, oltre a un ruolo attivo dell’osservatore, che partecipa all’evento rappresentato dall’opera, anche quel “mondo della vita” teorizzato da Husserl, nel quale si fanno quelle esperienze della vita quotidiana, che non possono essere oggetto di una spiegazione scientifica e teorica, e sono quindi descrivibili solo attraverso il linguaggio dell’arte. Già un critico attento come Cerritelli aveva constatato come nella tua opera fosse presente “una dualità, che emerge dal carattere dinamico con cui l’artista persegue spazi di continuità tra arte e vita, tra misure mentali e contaminazioni legate alle trasformazioni dell’esistenza”, nella quale “avviene una costante oscillazione tra atto costruttivo e flusso immaginativo, simultanea convergenza di opposte tensioni: volontà di progettare la forma e necessità di abbandonarsi all’evento della materia”. E in quella materia ravvisava valenze espressive derivate non da una facile “finzione archeologica”, ma da una inesausta ricerca di “verità antropologica”. Il che ci riporta a parlare di percezione e di sensi, con i quali si ricostruisce la “memoria”. Considerando ad esempio l’opera “Park Avenue South”, che vedevi dallo studio di Manhattan, troviamo chiaramente espressa la traccia di questa memoria, ma anche di una precisa idea di forma e di presenza dei piani, fedele alla gestalt, che mi sembra ricorra in questo ciclo.
PS: Certamente, ogni piano diventa una figura, che trasfigura direttamente in una forma, e così – in quell’opera in particolare – i piani spaziali traslano in un ambiente osmotico che li coagula: l’ultimo, con la città di New York vista attraverso la finestra, collassa sui precedenti, via via a formare un meccanismo astratto, che li compenetra e li unisce.
MM: Oltre al periodo con Scarpitta, quali sono le poetiche con cui hai maggiormente sentito la necessità di misurarti, nei termini di questa tua ricerca di segno mnemonico?
PS: A Roma con Forma 1, ho avuto l’incontro con alcuni aspetti del Cubismo (poetica che implica la conoscenza mnemonica dell’oggetto rappresentato – ndr), mescolati con quelli di una certa Astrazione derivante dalla lezione di Kandinsky (ricerca cui collaborano intimamente molti processi mnemonici – ndr), come in Turcato, i quali presentavano una ripresa dal vero. Successivamente mi sono misurato con l’opera di Afro e di Alberto Burri in particolare, con elementi che si ritrovano ancora nel mio lavoro attuale. Ne è seguito un periodo ideologico: quello delle fabbriche, che finisce nel ’63, anno in cui sono partito per l’America. Rientrato in patria, ho lavorato su quello che dell’America avevo assorbito, fino al 1967-’68. Fu allora che subentrò il problema di finire il vuoto, e che sentii l’esigenza della scultura, di cui abbiamo parlato.
MM: La tua vicenda artistica si è intrecciata a quella di molti altri artisti; per questo lavoro chi senti di dover segnalare in particolare?
PS: Certamente i primi ricordi si legano ai colleghi dell’Accademia di Brera, quando studiavo con Giacomo Manzù. Poi la “Mostra Nazionale della Giovane Pittura Italiana” del 1950 a Roma mi porta ad aderire al realismo esistenziale degli anni Cinquanta, cui segue l’interesse per l’espressione informale, che mi spinse a lavorare anche all’estero, a New York nel 1964 e in Germania alla fine degli anni Novanta. Ma quello fu un percorso solitario. Invece la memoria di scambio e compartecipazione, nella ricerca come nei linguaggi, si lega a luoghi: per primo lo studio di via Borromei, che ho preso
nel 1959 insieme a Gianni Brusamolino, e che vedeva la presenza costante anche di Carlo Nangeroni. In questo lavoro, di Gianni trovo la corrispondenza in una visione dedicata alle identità primarie, agli archetipi, direbbe Jung, a quella forma di coscienza collettiva in cui risiede anche la memoria di cui parlo in queste mie opere; che in Brusamolino si trasforma in percorso mitologico. In Carlo questi archetipi sono sempre presenti, ma diventano forme geometriche, collegate a un’armonia musicale di fondo, memori forse della struttura ordinata del cosmo. Poi, dal 1962 al ’63, prendo studio con Pino Spagnulo e Nanni Valentini, con i quali elaboro un particolare incontro con la materia. Fino alla partenza per l’America, dove lavorerò, come già detto, con Salvatore Scarpitta. Al ritorno l’esperienza appresa, e una certa maturità mi hanno spinto a continuare da solo, fino a questo ultimo decennio, nel quale ho sentito il bisogno di una nuova condivisione non solo intellettuale, che continua ancora con i miei amici, come Gianni e Carlo, ma nell’operare. Una condivisione che ho trovato nella bottega.
MM: Si è voluto accostare i tuoi Cementi al lirismo degli affreschi, condividi questa interpretazione?
PS: No, non condivido né la parola lirismo né l’accostamento all’affresco. La parola lirismo non si adatta al mio lavoro di questo periodo, che cerca invece un’espressione di tipo plastico: i Cementi sono fatti plastici, elementi concreti, con il loro peso e la loro realtà fisica. Non dipingo più la realtà, non la rappresento, ma essa c’é nella stessa materia che uso. Il vantaggio di questa strada è che ci sono benefici di tipo spaziale: il fatto che vi siano evocati eventi reali mi porta a immettere nello spazio dell’opera piani differenti, che lo sfondano, lo approfondiscono, in maniera concreta. Sia il piano lontano, sia quello più prossimo vivono in uno spazio mnemonico, ma altrettanto immediatamente tangibili. Non hanno volontà evocativa, ma si presentano come una palingenesi dell’esperienza vissuta.
MM: E’ per definire con precisione il confine tra i due piani espressivi, quello poetico e quello descrittivo, che hai voluto inserire in questa mostra la parola recitata, tratta dall’opera poetica di tuo figlio?
PS: La poesia di Giovanni si basa su due grandi aspetti: la riflessione filosofica e la scelta del Tempo come elemento guida, spesso riferita alla poesia ionica, guardando con grande attenzione autori come Parmenide, Anassimandro, Talete ed Eraclito. Un Tempo che mi è sembrato possa collaborare con grande efficacia a illustrare le “impressioni visive” presentate in questa mostra.
MM: In questa prospettiva, oltre all’aspetto dell’osservazione, che si rinnova accompagnato da una modalità di fruizione sonora, sembra riemergere la doppia valenza della componente narrativa. Un tema centrale di tutta l’arte occidentale, ma svolto in maniera completamente differente nei Cementi e negli Arazzi.
PS: Questo deriva dal fatto che, al contrario dei Cementi, in particolare gli ultimi nove parietali, che seguono un preciso progetto, gli Arazzi sono nati “per caso”. Quando dipingevo ripulivo il tav
olo con dei fogli di carta, che al termine del lavoro avrei dovuto cestinare, ma ne rimpiangevo sempre le qualità cromatiche e compositive, difficilmente riproducibili in altro modo. Lì ho sentito l’esigenza di trovare per loro una forma adeguata, che è diventata quella di un grande pannello di tela, sul quale queste forme si inseguono e tornano a un comune accordo semantico. Penso alle grotte di Lascaux: lì si comprende come l’uomo abbia da sempre inseguito forme, nel tentativo di rispondere a un suo istinto innato, un bisogno primitivo, e spirituale al tempo stesso… come per me oggi.