I moti dell’anima

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“Farai le figure in tale atto,/

il quale sia sufficiente a dimostrare/

quello che la figura ha nell’animo;

altrimenti la tua arte non sarà laudabile”./

Leonardo, Trattato della pittura, n.290.

Quando alla fine del ‘400 la rappresentazione artistica incontra la fisiognomica, viene dato un volto all’anima. Flavio Caroli, lo storico dell’arte che ha tracciato le linee di quest’incontro, individua anche una serie di soggetti rappresentativi esemplari e ricorrenti all’interno della produzione artistica, come quello delle bocche urlanti.¹  E, se, quello delle bocche urlanti, è tema comune a diversi artisti del XV secolo, come dimostra ad esempio il famoso dipinto raffigurante Ercole e Anteo, e l’omonima statua, sempre opera di Antonio del Pollaiolo, sarà con la scoperta dei moti dell’anima da parte di Leonardo, impressi nell’immagine del Guerriero per la Battaglia di Anghiari sulle pareti del  Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio a Firenze, che si avvia una vera e propria rivoluzione. L’instabile fortuna conservativa dell’opera di Leonardo si abbatterà anche sul ghigno dell’uomo d’arme, strappandolo inesorabilmente dal solido supporto parietale della Sala repubblicana per riducendolo a pulviscolo del tempo, ma le idee lì racchiuse, appena varcato il nuovo secolo, deflagrano, e con una potenza tale da fissarsi indelebilmente nella memoria di tutti gli artisti che verranno, tanto che le raffigurazioni potranno anche scomparire, ma diventeranno comunque “la scuola del mondo”.

Ercole e Anteo - Pollaiolo (1475 )

Ercole e Anteo – Pollaiolo (1475)

Ci vorranno oltre due secoli perché la potenza dell’idea leonardesca possa essere domata e ricondotta all’interno di un più governabile sistema teoretico, di cui si incaricheranno due figure capitali del pensiero settecentesco: Kaspar Lavater e Georg Christoph Lichtenbergh. Se al primo sarà ascrivibile la teoria dei tratti fissi del volto, che guiderà a comprendere uno dei temi principali dell’arte contemporanea, quello della maschera; al secondo si dovrà invece la formulazione dell’idea dei tratti mobili, ovvero quelle espressioni corporee le quali, in stretta dipendenza dal pensiero di Leonardo, rivelano l’anima della persona ritratta. Assumendo che l’anima, come afferma Kant, sia “la facoltà teoretica mediante la quale ogni individuo è in grado di percepire la propria identità indipendentemente dalla propria corporeità”², la rappresentazione artistica, quando incontra la teoria fisiognomica,  sembra opporre subito una prima ma pesante obiezione: anima e corpo sono decisamente, e visibilmente, congiunti. E così, se, da una parte, la rappresentazione artistica sembra far vacillare l’assunto kantiano, dall’altra sembra invece presentare un prezioso strumento d’indagine per inquisire la matrice intuitiva dell’anima.

Nel panorama della storia dell’arte la prima evidenza sintomatica corporea dell’anima è svelata dai moti scoperti da Leonardo, che torneranno a  più riprese a manifestarsi in tutte quelle rappresentazioni connotate dalla stessa attenzione empirica (celebre quella caravaggesca di Ragazzo morso da un ramarro), ma è attraverso la quasi contemporanea rappresentazione della malinconia (con Melancolia I di Albrecht Dürer del 1514), che si vedranno apparire tutta una serie di segni, di indizi fisiognomici, che riflettono esattamente una precisa “disposizione” dello spirito interiore.

Incomincia così il viaggio che penetrerà sempre più nell’intimo quel continente immenso e sommerso (quell’Africa interiore, la chiamerà Jean Paul Richter) dell’anima umana, e che troverà nell’arte, da Leonardo in poi,  la prima sonda per indagarlo. La teoria fisiognomica, nel corso del XIX secolo, darà quindi vita prima alla scienza psichiatrica, e in seguito alla psicoanalisi.

Monomaniaca dell'invidia - Géricault, (1822)

Monomaniaca dell’invidia – Géricault, (1822)

Non è possibile in questo breve saggio, che vuole indicare la direzione presa dal pensiero del ‘400 e che corre fino a noi, ripercorrere tutte le tappe di tale viaggio straordinario, ma ne dobbiamo individuare almeno una, nodale, all’interno del XIX secolo, che vede l’introduzione delle tesi positiviste. Col Positivismo arrivano infatti a maturazione i germi delle ricerche razionaliste seicentesche, e di quelle illuministe del secolo precedente, orientate alla psiche. Tra coloro che daranno una spinta decisiva in questo senso non possiamo non menzionare tre grandi ricercatori, che cambiarono con un segno di rinnovamento rivoluzionario la scienza ottocentesca: Philippe Pinel (1745-1826), Jean-Etienne-Dominique Esquirol (1772-1840) ed Etienne-Jean Georget (1795-1828). Una triade legata da un rapporto maestro-allievo, che normalmente trova affermazione nel campo dell’arte, più che in quello della scienza, aspetto, questo, che sembra già indicativo dell’oggetto delle loro ricerche. Il primo, Pinel, celebre per aver “liberato i folli dalle catene”, lo possiamo considerare antesignano del trattamento psicologico, che egli chiama morale, e che evita al malato ogni genere di intervento fisico-farmacologico (venendo il paziente sostenuto dai frenologi). Per il dottor Pinel la moral (si legga psiche) dell’uomo è costituita di affetti, passioni, emozioni. Pinel alla dialettica psico-fisica predilige quella âme-corps di diderotiana memoria, “al fine di distanziarsi dalla tradizione metafisica e di pensare le due componenti dell’umano come realtà di ordine empirico-terreno.”³ Il folle diventa secondo tale visione un alienato (termine che manifesta già la straordinaria modernità di approccio), cioè un malato che ha perso temporaneamente le facoltà intellettive e affettive, ma che può però essere curato e recuperarle.

Il secondo autore, Esquirol, discepolo di Pinel, considera la follia un eccesso di qualche passione sfuggita al controllo razionale, ma che può sempre essere curata. Ma con Esquirol c’è anche già molto di più, perché egli metterà a punto un metodo terapeutico, che sentirà di dover chiamare precisamente “gioco della fisionomia”, consistente in un trattamento “che permette al medico di dialogare col paziente attraverso le espressioni del viso, i mutamenti dello sguardo, i cambiamenti degli stati d’animo”.⁴

L’ultimo dell’illustre triade, Georget, l’allievo più dotato di Esquirol, si dedicherà alla distinzione tra follia parziale e totale, partendo dal suo uso in sede di giudizio legale, e indicherà per primo scientificamente la sede delle malattie mentali in un’alterazione del sistema nervoso, e in particolare del cervello. Solo un anno dopo però modificherà le sue tesi in senso materialistico sostenendo che “il cervello è la sede immediata, la causa organica essenziale … di tutti i fenomeni intellettuali, delle sensazioni, delle combinazioni dello spirito, delle passioni … di tutte le operazioni dell’organismo che si fanno con coscienza”⁵, finendo tra le prime eccellenti vittime dello scacco riduzionista… ma, due anni dopo, nel suo testamento scientifico, sembra volerne uscire, lasciando scritto: “Avevo appena messo a punto la Physiologie du système nerveux, quando nuove meditazioni su un fenomeno assolutamente straordinario, il sonnambulismo, non mi permisero più di dubitare dell’esistenza in noi di un principio intelligente del tutto differente dalle esistenze materiali. Si tratterà, se si vuole, dell’anima e di Dio”.⁶

Studio per la Battaglia di Anghiari - Leonardo (1503)

Studio per la Battaglia di Anghiari – Leonardo (1503)

Georget morirà a 33 anni, lasciando un mistero insolubile dietro di sé. Cinquant’anni dopo si troveranno 5 tele, a firma di Théodore Gericault, morto anch’egli alla stessa età di Georget, e da questo stesso curato per le turbe psichiche da cui era affetto, raffiguranti non dei generici folli, ma dei precisi malati monomaniaci.

Viene così lasciato, questa volta alla storia dell’arte, un altro enorme mistero, tuttora insoluto. Per scioglierlo, e comprendere il cammino che porterà poi alla scoperta dell’inconscio, e quanto da essa deriverà al XX secolo, in una corsa inesausta che prosegue oggi in varie e complesse direzioni interpretative, si deve sempre in ogni caso partire dal genio di Leonardo e seguirne la traccia.

Analisi iconografica e iconologica

Se i “moti dell’animo” iconizzati dal tema delle bocche urlanti esprimono un percorso centrifugo dell’anima verso il corpo, un percorso di segno esattamente opposto sarà quello del vortice interiore dell’homo melancholicus. La serie di rappresentazioni di figure melanconiche, ‘saturnine’, all’inizio spesso anche legate a un grado di conoscenza alchemica, è lunga e varia: dall’elegantissima e seducente Melanconia di Domenico Fetti, a quella tessuta di ombre incise ed evocative di Grechetto, fino alla larvatica figura di Munch, sospesa in un universo solitario, si dipana una schiera di umana fisionomia ma interiore silenzio.⁷

Quando si scavalca lo spartiacque del Positivismo, poi, e ci si accampa nelle oscure lande di fine ‘800, illuminate solo dalla debole torcia di una ancora abbozzata ed embrionale psichiatria, incontriamo la figura che più di ogni altra porterà nuova luce nei territori dell’arte: Vincent Van Gogh.

Il legame con la psichiatria è presto detto: a maggio del 1890 Vincent Van Gogh lascia l’ospedale di Saint-Remy, dove ha passato mesi di cura psichiatrica (positivista). Mesi impressi su una tela in segni pesantemente memori del grigiore del ricovero. Poi, prima che la materia di tubetto venga risucchiata nuovamente dal bulimico vuoto cosmico, Van Gogh decide di trasferirsi a Auvers-sur-Oise, dove incontra un medico appassionato d’arte e pittore lui stesso, che decide di prenderlo in cura. Si tratta del dottor Paul Gachet, il quale prontamente diagnosticata a Van Gogh la malinconia.

Ma ciò che più sorprende è che Gachet stesso sembra soffrirne, e che, giovane medico a sua volta alla Salpêtrière, come lo erano stati Pinel, Esquirol e Georget, conosce benissimo l’argomento, in quanto per tesi sceglie proprio di portare uno “studio sulla Malinconia.”⁸ Intorno a essa iniziano interminabili discussioni, confessioni affettate o chiacchierate animate, e una solida amicizia tra i due personaggi, uniti dalla malattia e dall’arte. Ne nasce, ineluttabilmente, un ritratto, che tiene memoria di tutte quelle ore di intensa comunicazione passate insieme: il ritratto del dottor Gachet.

Gachet in quelle ore probabilmente riporta alla mente e parla all’amico della tesi giovanile, che descrive fisiognomicamente il malinconico: “sembra che la creatura si rattrappisca, si ripieghi su se stessa, si comprima, come se dovesse occupare il minor posto possibile nello spazio. La postura è particolare … il tronco semiflesso, le braccia trattenute verso il torace … le dita contratte più che flesse … La testa quasi piegata sul petto leggermente inclinata … i muscoli facciali sono come contratti e conferiscono alla fisionomia un aspetto di particolare durezza; i muscoli sopraccigliari aggrottati sembrano nascondere l’occhio e aumentarne la profondità; le arcate sopraccigliari sporgono in avanti, due o tre pieghe verticali separano le sopracciglia.”⁹

Ecco apparire il ritratto del dottor Gachet. Van Gogh è consapevolissimo dell’autoidentificazione con Gachet, che fa di questo quadro quasi un autoritratto. Ma, soprattutto, con questa precisa rappresentazione del melancholicus, Van Gogh sfata per sempre il mito di pittore naïve, dimostrando un grado di lucidità e consapevolezza, non solo del linguaggio artistico, ma del proprio ‘continente interiore’, che pochi altri hanno raggiunto. Il ritratto non solo è memore del motivo iconografico della melanconia, ma ne sussume l’intera storia dalla ricchissima simbologia, che inizia ponendo in primo piano la pianta officinale della digitalis, la quale serviva appunto a curare gli stati melanconici, per soffermarsi poi sui due libri dei fratelli Goncourt, che indicano altri espliciti riferimenti autobiografici, fino a tutta la vasta traduzione della semantica fisiognomica, mediante cui Van Gogh esprime un altissimo grado di consapevolezza. Una lucidità che non lascerà niente al caso, anzi, s’impadronirà, solo qualche mese più tardi, del destino, come lasciano già presagire il segno e il colore impastato, che non possono che venir fuori da quella “mano contratta” dal “moto dell’anima” saturnina.

Note bibliografiche:

Nota 1: Caroli F., Storia della Fisiognomica, Mondadori Electa, Milano, 1995/2002.

Nota 2: Panigada R., Il percorso dei sensi e la storia dell’arte, Swan edizioni, Milano, 2012, p.101.

Nota 3: Caroli F., ibid., pp.184-185.

Nota 4: Caroli F., ibid., pp.185.

Nota 5: Caroli F., ibid., p.186.

Nota 6: Caroli F., ibid., p.186.

Nota 7: Caroli F., ibid., pp.211-221.

Nota 8: Caroli F., ibid., p.214.

Nota 9: Caroli F., ibid., pp.214-215.