Dilemmi logici della percezione

Riccardo Panigada

Tutti gli scienziati sono umani
Russel era uno scienziato
Russel era umano

Questo sillogismo piacerà poco però ai sostenitori codini del metodo deduttivo, che vorrebbero negare diritto di cittadinanza al metodo induttivo.

Russel, essendo appunto umano, e decisamente dotato di grande sagacia, amava scherzare, e, certamente, non poteva godere del privilegio di formulare un’epistemologia infallibile in ogni circostanza e in ogni campo della ricerca (né aveva la pretesa di farlo).

Ci si riferisce qui, in particolare, al divertente aneddoto del “Tacchino induttivista di Russel”, che alle nove del mattino della vigilia della festa del Ringraziamento, invece di ricevere il solito nutrimento che si aspetta, diventa cibo per chi fino al giorno prima lo ha ingrassato.

È chiaro che con questa storiella Russel intendesse mettere in ridicolo il metodo induttivo (per enumerazione, ma non certo quello baconiano per eliminazione) (1) che porta il tacchino a una certezza fallace. La sua storiella aveva il fine di mettere in guardia dai possibili errori che l’utilizzo acritico di tale metodo può comportare. Evidentemente il Russel che afferma: «the whole problem with the world is that fools and fanatics are always so certain of themselves, but wiser people so full of doubts» (2), certamente non pretende eliminare ogni dubbio dal mondo grazie al semplice corretto ed esclusivo utilizzo del vecchio caro metodo deduttivo. Infatti Russel richiama correttamente alla necessità di avvalersi del metodo deduttivo nei casi in cui evidenzia quanto acriticamente siano disposti a comportarsi gli uomini nel contesto di situazioni che ne condizionano pesantemente la psiche (si veda il suo famoso esempio della “Teiera celestiale”) (3), mediante l’inesorabile e ricorrenza delle cerimonie religiose.

Ma, ancora oggi, c’è chi non avendo certo le doti del grande matematico inglese, pensando di avere il privilegio di occuparsi altrettanto bene di matematica, fisica o filosofia, invece di vivere la splendida e sempre nuova avventura che può scaturire dalla ricerca, non fa altro che cercare “certezze”, senza le quali la sua “debole mente” direbbe Einstein, non può darsi pace. E, così, magari decontestualizzando e utilizzando impropriamente le affermazioni di un agnostico come Russel, tenta di tirare in modo truffaldino acqua al mulino delle tesi opposte.

E, se, dal punto di vista epistemologico, Russel non vuole avventurarsi nelle questioni che riguardano le conseguenze della percezione, non potendo essere formalizzato il percorso intuitivo-induttivo che porta alla strutturazione dello spazio esterno al soggetto, si limita a esprimere il proprio disagio rispetto alle percezioni definendole “momentanee e soggettive”, senza che queste possano consentire la conoscenza diretta degli oggetti esterni: egli rileva in tal modo implicitamente il problema della “imperscrutabilità” della coscienza percettiva.

È ben difficile pensare che Russel (peraltro buon amico ed estimatore di Einstein con il quale produce e firma il manifesto del ’55), potesse eventualmente negare il processo biologico-funzionale che procura agli animali deambulanti e agli uomini la conoscenza necessaria per muoversi nello spazio esterno. E non potendo tale processo essere frutto di un ragionamento ipotetico-deduttivo, ne avrebbe inevitabilmente riconosciuto la natura induttiva. Ciò non è avvenuto semplicemente perché Russel non ha desiderato trattare la problematica della coscienza.

Cenotafio di Newton - Étienne-Louis Boullée (1784)

Cenotafio di Newton – Étienne-Louis Boullée (1784)

In ogni caso, l’uomo non può che avere “in sé”, per ragioni biologico-esistenziali l’istinto ad affidarsi a ricorrenze percettive e fattuali, che portano a conoscenze utili e necessarie (per quanto soggettive), pur non garantendo tali conoscenze la certezza derivante dall’applicazione del metodo deduttivo.

Si tratta di una sorta di “istinto a osare rischiando”, per esempio, che, al prossimo passo, la terra su cui si cammina, possa cedere sotto i piedi, invece di consentirci di avanzare. Senza tale istinto saremmo costretti a restare totalmente adiabatici.

Così come ferma sarebbe rimasta la ricerca, se, ogni tanto, l’istinto a osare non avesse prevalso nella mente di qualche scienziato. Agostino Scilla nel XVII secolo fu il primo a formulare l’ipotesi che i fossili non fossero “copie della natura” disseminate sulla terra (come sostenevano i suoi contemporanei, che dovevano ricorrere alla pura fantasia, non potendo esservi un metodo ipotetico deduttivo che giustificasse i fossili).

Scilla ne raccolse in quantità, e li studiò col metodo del naturalista, ovvero applicando il metodo analitico, che è alla base di quello ipotetico-deduttivo. Ma come ciò sarebbe potuto accadere senza che la sua mente gli avesse prima fatto portare nel suo laboratorio il primo di quei fossili seguendo un percorso induttivo? forse oggi, ex post, sapendo che i fossili con la forma di pesce sono stati pesci, potrebbe sembrare facile accettare come razionale e perfino considerare erroneamente deduttiva la sequenza (non sillogistica): “tutti gli animali marini hanno morfologie specifiche molto caratterizzate”; “queste pietre hanno la forma specifica di conchiglia”; “queste pietre furono conchiglie regolarmente abitate dal loro mollusco”.

Ma “ex ante” era quanto mai audace ipotizzare una simile sequenza di asserzioni, nel momento in cui i sensi avevano sempre considerato pietre le pietre e conchiglie le conchiglie, né si era mai vista alcuna conchiglia di pietra, abitata dal mollusco. Inoltre la possibilità di trasformazione di una sostanza in un’altra ad opera del tempo e di processi naturali era totalmente ignota, e tabù per la scienza dell’epoca, senza contare che non era certo facile accettare il perché col tempo le conchiglie si pietrificarono invece di rompersi, o consumarsi.

Questo esempio può forse salvare, quindi, per tutti i casi analoghi, perfino la legittima cittadinanza, nell’armamentario intellettuale dello scienziato, di una sorta di metodo induttivo per enumerazione (il ritrovamento solo di qualche fossile probabilmente non sarebbe stato sufficiente nel ‘600 a far pensare a nessuno di studiare il fenomeno degli “scherzi della natura”).

Un atteggiamento induttivo molto più audace (e ben poco probabile all’epoca) sarebbe stato necessario per riuscire a far prendere in considerazione al fine di sottoporlo allo studio l’eventuale ritrovamento di un solo fossile di quegli anfibi preistorici dalle forme sconcertanti ed estinti da migliaia di anni. Per quanto oggi è evidente che sarebbe stato assolutamente sbagliato non prendersene cura.

Dunque, dal punto di vista storico, come dal punto di vista naturale e tecnico il pensiero logico-deduttivo, si afferma maturando dal pensiero induttivo, con il quale può serenamente e proficuamente convivere.

Infatti, è impossibile sostenere che si sia originariamente partiti da qualsiasi altro presupposto se non da osservazioni, senza avere a disposizione la conoscenza innata di alcun metodo teorico, né alcun “manuale di istruzioni”. È associando le osservazioni alla capacità di astrazione, che si ottiene un livello di certezza superiore a quello procurato dal metodo induttivo.

È per astrazione, infatti, che la mente riesce a modellizzare la rappresentazione di oggetti – per esempio, nel famoso sillogismo riportato all’inizio dell’articolo – gli “esseri umani”, ai quali viene riferita la proprietà di essere mortali, e di ricondurre gli oggetti a classi diverse, e di diverso ordine.

Tuttavia l’armamentario argomentativo del sistema logico deduttivo si rivela impotente nella necessità (tanto più fortemente avvertita quanto più si abbia desiderio di sicurezza) di risolvere situazioni problematiche originarie, derivanti dalla facoltà di astrazione (per esempio dalla facoltà di immaginare l’esistenza dello spazio infinito), o da ambiguità generate da alcune predicazioni (per esempio quella nota come il “paradosso del mentitore”) (4).

I due esempi citati in parentesi nel paragrafo precedente dimostrano che nella capacità di astrazione e di modellizzazione della mente umana si nascondono quindi delle insidie, che ne dimostrano la sostanziale insufficienza descrittiva e assertiva.

Infatti Saccheri, mostrando ai posteri la via per capire che il quinto postulato di Euclide era indimostrabile, evidenziò che la capacità di astrazione che consentiva di immaginare non l’effettiva estensione spaziale infinita, ma di presupporre l’eventuale esistenza dell’infinito, non si mostrava sufficiente a gestire l’infinito né intuitivamente (per limite sensoriale), né deduttivamente avvalendosi esclusivamente dei quattro precedenti postulati che si riferiscono al mondo finito.

E così la modellizzazione del linguaggio non consente di risolvere contesti semantici autopredicativi del tipo “Questa proposizione è falsa” il cui livello di astrazione risulta più elevato rispetto a quello della frase “Il cane ha quattro zampe”.

Se ne potrebbe concludere che la capacità di astrazione che consente di modellizzare è pertanto indubbiamente vantaggiosa, permettendo di costruire il metodo ipotetico-deduttivo, che ha generato la scienza di Galileo e Newton inerente ai corpi e alle dimensioni spaziali fisicamente familiari all’uomo, ma si dimostra fatalmente insufficiente appena si tenti di includere in un sistema formulato con metodo ipotetico-deduttivo livelli di astrazione immediatamente superiori a quelli più prossimi ai sensi e all’esperienza umana.

Grazie all’eredità dei Pelasgi (5) nacque la cultura dell’antica Grecia, che seppe trarre dal metodo induttivo la forza delle capacità deduttive.

Affascinante è il mito di Eurinome, divinità cosmica forse corrispondente alla dea dei Sumeri Iahu (letteralmente “vagante in ampi spazi”, ovvero la “divina colomba” creatrice dell’uovo cosmico nella mitologia sumera), che accoppiatasi con Borea (vento prodotto dal volteggiare della stessa dea nel cielo vuoto), e poi trasformato da Eurinome nel serpente Ofione, da cui la dea si fece fecondare, per deporre l’uovo cosmico, dal quale uscirono “tutte le cose”.

Tra le diverse versioni cosmogoniche è da questo mito che si evince in modo particolarmente efficace la capacità intellettuale e poetica di descrivere il passaggio da spazi “indeterminati e illimitati” alla materia per tramite di una rappresentazione intuitiva di un elemento “assoluto-biologico” (Eurinome-Iahu), dal cui movimento volteggiante sorgono le spire di Ofione, archetipo fallico per eccellenza, senza il quale è inconcepibile che la divina colomba possa deporre un uovo capace di generare l’universo.

Il mito non può che essere prodotto che da facoltà induttive, eppure indica l’uovo, come principio biologico-materiale generatore, mentre l’animale che lo ha deposto è divino, quasi come se già fosse chiaro che gli esseri viventi non possono altro che sorgere da un elemento primigenio materiale.

Alla luce delle conoscenze odierne infatti una concezione mitologica dell’origine della vita che inserisca il contenuto di mistero all’interno dell’uovo e del suo stato di generatore potenziale, risulta sicuramente più consona alla descrizione evoluzionistica, di quanto non siano le teorie creazioniste secondo le quali siano comparsi esseri viventi al loro stato morfologico già differenziato ed evoluto.

Ma sarà la cultura greca che, scoprendo il metodo analitico, immaginerà di frammentare la materia fino a immaginare, con Democrito, l’esistenza dell’atomo, da cui Lucrezio deriverà la sua filosofia della natura, nella quale gli atomi seguono ciascuno il rispettivo clinamen, quella “forza naturale” che da Epicuro era definita παρέγκλισις, e secondo cui casualmente gli atomi s’incontrano.

È impressionante pensare che queste teorie così prossime a descrivere ciò che oggi sappiamo corrispondere alla effettiva descrizione dei fenomeni naturali, siano state frutto solamente di ragionamento induttivo, senza l’opportunità del controllo sperimentale.

Perché si dovrebbe pensare di buttar via la potenzialità del percorso logico-induttivo ragionevolmente controllato? Non costituisce forse una modalità ancora valida in epoca contemporanea, nel momento in cui lo si può abbinare nella ricerca a paradigmi logico-deduttivi maturi e consolidati?

Non è stata forse la fiducia nel ragionamento induttivo supportato dallo strumento matematico che ha consentito ad Einstein di osservare con il suo tipico umor che “Max Planck non capiva nulla di fisica”, (siccome durante l’eclissi del 1919 Planck rimase in piedi tutta la notte per vedere se venisse confermata dall’osservazione la curvatura della luce dovuta al campo gravitazionale) “mentre se avesse capito davvero la teoria avrebbe fatto come me e sarebbe andato a letto”? (Archivio Einstein 14-459).

Senza intuizione e metodo induttivo la Teoria della Relatività non sarebbe mai nata. teoria che – ci si sente autorizzati a dire – scandalosamente non ha mai ricevuto il premio Nobel (Einstein lo ottenne per aver scoperto l’effetto fotoelettrico), e, che, a tuttoggi, trova la sua brava sacca di detrattori, diversi dei quali vorrebbero essere considerati scienziati.

“Scienziati” che ancora oggi non riescono a darsi pace senza il tempo “assoluto”: una sorta di fluire perenne e metafisico come l’acqua da una brocca tenuta dalla mano divina, frutto di pura immaginazione condivisa anche da Newton, e che, pertanto, Ernst Mach ritenne opportuno definire col termine di “mostruosità concettuale” (non essendo in effetti possibile supporre alcun tempo senza relazioni di sorta).

Gli avversari della relatività oggi potrebbero non essere consapevoli di accanirsi a ricercare, anche in laboratorio, obiezioni mediante il riscontro di casi particolari apparentemente non collimanti con la teoria einsteiniana (è noto infatti che il ricercatore meno attento all’autocontrollo, reso possibile dagli strumenti epistemologici, possa cadere vittima dei propri preconcetti, commettendo falso ideologico e metodologico). Ma è possibile tanta inconsapevolezza quando grazie ai satelliti gemelli anche l’effetto gravitomagnetico di Lense e Thirring (6) è stato misurato, confermando la correttezza del Modello Standard, e si è ormai rilevata anche l’”impronta” del bosone di Higgs?

Note

(1) – Il riferimento è alla famosa “dottrina delle tre tavole (della presenza dell’assenza e dei gradi)”, mediante le quali Francesco Bacone, mostra come affinando il metodo induttivo aristotelico per enumerazione si possa giungere all’esclusione degli elementi inessenziali a un fenomeno

(2) – “Il vero problema del mondo consiste nel fatto che i pazzi e i fanatici sono sempre assolutamente certi di se stessi, mentre le persone sagge sono sempre piene di dubbi”

(3) – Russel ha scritto nel ’52, che, se l’indimostrabile esistenza di una ipotetica “teiera celestiale” orbitante “venisse affermata in libri antichi, insegnata ogni domenica come la sacra verità e instillata nelle menti dei bambini a scuola, l’esitazione nel credere alla sua esistenza diverrebbe un segno di eccentricità e porterebbe il dubbioso all’attenzione dello psichiatra in un’età illuminata o dell’Inquisitore in un tempo antecedente”.

(4) – Nella proposizione: “io sono un bugiardo” è impossibile secondo la logica classica (a meno che non si ipotizzi un livello metalinguistico e un contesto eccezionale in cui la proposizione venga ipotizzata vera, in contraddizione aperta con quanto affermato dalla proposizione medesima) stabilire se venga affermato il vero o il falso.

(5) – Πελασγοί: gli abitanti autoctoni intorno all’Egeo precedenti alla cultura ellenica.

(6) – Nel 1918, Joseph Lense and Hans Thirring predissero l’effetto di trascinamento del sistema di riferimento locale: ogni corpo dotato di massa deforma lo spazio-tempo attorno a sé; se questo oggetto ruota, esso induce una seconda distorsione torcendo lo spazio attorno a sé; se lo spazio-tempo è in stato di trascinamento attorno a questa prima massa, allora gli oggetti presenti in quella zona di spazio debbono risentire di tale stato dinamico.