L’Ottocento: storie di sguardi

di Marco Marinacci

Se il “pensiero in figura” nel XIX secolo trova un sostanziale affinamento lungo il viaggio che lo condurrà dall’allegoria al simbolo¹, passando attraverso quella foresta dai chiari tratti baudelairiani che appare nelle Correspondances (“La natura è un tempio in cui viventi colonne lasciano talvolta sfuggire confuse parole; l’uomo vi passa, attraverso foreste di simboli, che lo guardano con sguardi familiari”), è appunto nello sguardo, che tale pensiero verrà a concentrarsi.

Come una lente sempre più precisa e cristallina, lo sguardo diventa il mezzo consapevole, attraverso il quale il pensiero si fa figura, e, allo stesso tempo, diventa sempre più importante investigarne la specifica dinamica sensoriale. Una dinamica che trova nell’occhio il suo primo organo recettore, tanto che questa inesausta indagine del pensiero artistico, che percorrerà tutto il secolo, culminerà nel motto cezanniano: “Non è che un occhio. Ma che occhio, mio Dio”.²

Un occhio che avrà sempre la luce del genio, e che butterà quella del proprio sguardo nelle nebbie imperscrutabili dell’interiorità. A cominciare da Gericault, di cui ineffabili restano le cinque immagini a noi pervenute della sua inarrivabile perlustrazione nei recessi della psiche umana, attraversata dalla sofferenza della monomania, alle indagini sui meccanismi dell’ipnosi di metà Ottocento, come ben si coglie dai ritratti di Courbet, al simbolismo di chiave esoterica di Moreau, fino a quello diretto, nel rapporto simbolico colore-anima di Vincent Van Gogh. Ed è “lo sguardo dentro”, che rivolge all’uomo il XIX secolo.

Poi c’é quello “fuori”, rivolto al mondo, ma ormai ben conscio del ribaltamento di prospettiva, e della nuova lente attraverso cui il mondo dovrà esser visto. Solo allora, tenendo ben ferma questa nuova lente convessa verso l’interiorità, e concava all’esterno, pronta ad acquisire il mondo e portarlo dentro, si potrà cogliere il senso dello sguardo con cui il Romanticismo per primo, e poi il Realismo, e, infine, sempre sulla stessa linea tesa e sottile, l’Impressionismo (non entrano a caso i nomi di correnti e movimenti, a sostituire quello degli artisti: la “presa diretta interiore” è sempre individuale e soggettiva, quella del mondo non può che essere “condivisa”), entreranno a partecipare del visibile.

Ecco che l’800 si può dunque dire essere “secolo di sguardi”, ai quali presto non basterà più il solo organo umano, ma dovrà trovare mezzi adatti ad assumerne tutte le qualità, primo fra tutti la macchina fotografica.

Uno strumento, quest’ultimo, che, dalla sua nascita, attraversa una lunga serie di trasformazioni tecnologiche, più o meno rapide (che continuano tutt’oggi, basti pensare al passaggio dall’analogico al digitale), ma che, fin dal primo momento, è apparso essere non tanto il sostitutivo dell’occhio umano, quanto il delegato esatto dello sguardo. Per comprendere quale sia il salto non tanto tecnologico, ma ontologico, che ha portato nel pensiero in figura la macchina fotografica, può tornare utile il confronto con l’antecedente camera ottica, o camera obscura, utilizzata dai Vedutisti.

Se, infatti, la camera ottica può, con qualche ragione, essere considerata in senso tecnologico un’antesignana della macchina fotografica, in quanto inquadra lo sguardo, compone una “visione” (o “micro-veduta”, l’insieme delle quali viene ricomposto in un’unica veduta)³, e porta l’artista a rappresentare la scena così inquadrata su un supporto adatto a fissarla (il cartone e la matita a carboncino verranno sostituiti in modo quasi “meccanico” da pellicola ed emulsione), non lo è per quanto riguarda la sua essenza, cioè il pensiero in figura che sostiene. La camera oscura è un sostegno tecnico, un aiuto alle capacità dell’artista, assolute e primarie, non il delegato del suo sguardo. Con l’introduzione della macchina fotografica entra invece in scena quell’alchimia, quella magia del processo degli elementi chimici, che sembrano ricondurre a sé soltanto la creazione artistica, impadronendosi di tutte le armi proprie del pittore, e facendo così della fotografia il ritratto esatto di quel “Deus sive Natura” intuito da Spinoza.

Sarà in effetti lungo, e accompagnerà appunto tutto il secolo, il dibattito in merito a quanto conti, e in cosa debba consistere l’intervento artistico sul processo puramente fotografico. Si parte dalle soglie dell’Ottocento⁴ – poiché si può immaginare la riluttanza dell’artista del Settecento nell’abbandonare quel pennello che l’aveva portato a essere sovrano in terra⁵ -ovvero dall’apparecchio più imponente appena introdotto, per giungere all’assoluta autonomia dello strumento fotografico (verso la fine del secolo), il quale permetterà all’immagine di diventare “autonoma”, tanto da esser posta in sequenza continua e “fluida”, trasformarsi in cinepresa. Nasce il cinema.⁶

La ricerca artistica fotografica in senso stretto si può ricondurre al decennio che va dal ’50 al ’60 (in analogia col secolo precedente, nel quale scoppiarono le due rivoluzioni del pensiero, illuminista, e romantico, esattamente negli stessi anni), quello in cui i primi fotografi di professione, come Gustave Le Gray, Henry Peach, Robinson e Oscar Gustav Rejlander, Evgenyi Vyshnyakov, e Yan Bulgak, uniti a nomi noti come Alfred Stieglitz, o altri ancora da scoprire, come il torinese Guido Rey, diventano degli sperimentatori delle potenzialità della pellicola⁷, per poi tornare, nel decennio successivo, alla pittura classica, o a metodi compositivi tradizionali.

Verranno ripresi solo dai grandi geni del cinema, spesso incompresi, uno su tutti Méliès, e, più tardi, verso gli anni ’30, da sperimentatori come Dora Maar, Alvarez Bravo, Brassai, André Kertéz, Henri Cartier Bresson, Man Ray, Luis Buñuel e altri surrealisti, che potevano sostenere gli esiti sperimentali della loro pellicola con la “formula magica” dell’onirico.
In ogni caso fissare l’attenzione dell’analisi storica su questo piccolo e piuttosto semplice strumento, la macchina fotografica, può essere interessante in una più ampia prospettiva di valenza antropologica, in quanto esso diventa il collante, il punto di congiunzione artistico tra i due secoli contigui all’Ottocento: il Settecento del Vedutismo e della camera ottica, e il Novecento, secolo ampiamente connotato dalla sostituzione del ruolo principe dell’artista con l’oggetto, il quale assume fondamentalmente le caratteristiche di protagonista assoluto della scena artistica. Si pensi solo al percorso che porta dal ready-made alla Pop art, dall’arte cinetica all’arte concettuale, in cui troneggia un “concetto”, che è il “fantasma” dell’oggetto (nel senso che va a sostituire l’oggetto, il quale a sua volta è andato a sostituire l’artista). Ma senza la presenza-assenza dell’oggetto, il concetto non avrebbe avuto forma, il Novecento può essere letto, in termini artistici, attraverso il valore e il significato, che assume di volta in volta l’oggetto, in relazione ai diversi movimenti e correnti. E quell’oggetto è stato, per primo, la macchina fotografica.

Note:

1) Si veda l’editoriale 8, in cui proponiamo una lettura in tal senso dell’arte visiva del XIX secolo.

2) L’esclamazione del maestro di Aix era rivolta al nuovo canone impressionista che reggeva tutta l’arte del periodo, imposto dal consapevole e geniale “sguardo” di Monet, il solo vero impressionista, in tal senso, ma dà ragione di tutto il corso della riflessione artistica che attraversa l’800.

3) Si veda il saggio di Tempo e Arte “Genius loci, un percorso di intuizione e percezione”.

4) La nascita del processo di sensibilizzazione si fa risalire agli esperimenti di Johann Heinrich Schulze, e alle successive prove di Thomas Wedgwood, fino alle scoperte di Joseph Nicéphore Niépce e Louis Jacques Mandé Daguerre, che diedero esito alla fotografia com’è oggi intesa.

5) Ci riferiamo al ruolo sociale acquisito dall’artista fin dal Rinascimento, che una nota linea storiografica, tra cui quella di Arnold Hauser, ben ricostruisce. Si veda in tal senso anche la nostra breve analisi a tal riguardo, nell’editoriale di Tempo e Arte n.3, relativo a Tiziano.

6) Emblematico sarà per esempio il caso di Georges Méliès, genio incompreso, ai suoi tempi, che ormai nel nuovo secolo – la lancetta segna inesorabile il 1902 – nel Voyage dans la Lune, utilizza ancora i pennelli, come un artista del Settecento, per colorare l’intera pellicola, con un effetto sorprendente e già presago di un futuro ancora troppo lontano, quello del cinema espressionista, o, forse, addirittura del Mistero di Oberwald (in cui Antonioni usa per la prima volta il colore digitale in chiave simbolica). Un genio che non poteva che essere incompreso (finirà a vendere dolci in un chiosco alla stazione di Paris-Montparnasse), perché troppo in ritardo sul vecchio, e troppo in anticipo sul nuovo secolo.

7) Questa fase della ricerca fotografica, anche in termini temporali più ampi, sarà definita “pittorialismo”.