Medium e medialità

Marco Marinacci

(nella foto di apertura: Hans Belting)

Dalla carta alla pellicola fotografica, e ritorno: come l’arte ha elaborato il suo rapporto secolare col medium di trascrizione mimetica per antonomasia.

Nell’affrontare il tema del supporto cartaceo quale veicolo di conoscenza in Occidente, e in particolare della conoscenza per immagini, ovvero simboli, corre l’obbligo di una premessa teorica, che possiamo trovare nel pensiero di Hans Belting, il quale afferma che la distinzione fra immagine e mezzo vale per le immagini come presenza di un’assenza: l’immagine è presente nel nostro sguardo, ma la sua presenza è affidata al medium nel quale l’immagine appare. Le immagini testimoniano l’assenza di ciò che rendono presente, per cui il medium (sia esso carta, pietra, bronzo, pellicola fotografica, ecc…) contiene in sé l’unica presenza possibile, nonché l’assenza del vero oggetto. La medialità delle raffigurazioni è il collegamento mancante tra le immagini e i nostri corpi.
Si assume qui implicito un primo, grande postulato, nell’equazione: memoria = esperienza del corpo. Ma nell’assunto di Belting si cela anche un paradosso, risultato della nostra capacità di distinguere immagini e mezzi, paradosso magistralmente reso manifesto da René Magritte.

Il rapporto immagine-memoria del corpo-medium visivo ha conosciuto un momento di intenso dibattito nella seconda metà dell’Ottocento, col nascere della fotografia. Il tema della replica era già insita infatti nelle tecniche tradizionali dell’incisione e della scultura, ma in entrambi i casi l’impronta dell’artista rimaneva molto forte, tramite il disegno o il modello. L’ingresso della fotografia, più adatta alle esigenze di presa diretta dal vero, favorisce, di fatto, una riflessione sul medium pittorico e sul suo valore sostanziale. Occorre quindi fare una premessa di carattere storico. E’ il 1864 quando nello studio del fotografo parigino Nadar va in scena la prima collettiva dell’Impressionismo. La sfida è aperta e la pittura incrocia la spada con la fotografia. Da questo momento in poi non si potrà più tornare indietro sulla scelta dell’uno o dell’altro mezzo tecnico.
Tecnologia (chimica nella fattispecie) e arte diventano un binomio inscindibile: mentre Chevreuil e Huygens portano all’attenzione degli artisti le scoperte scientifiche relative a colori primari e secondari, l’illustre letterato Goethe formula uno studio sui colori che avrà larghissima fortuna e cui si dovrà la formula impressionista voluta da Monet del colore puro. A questo punto la pittura, tenendo testa alla fotografia grazie all’introduzione dell’attimo luminoso, potrà superarla grazie all’uso delle ombre colorate, che sfuggono a una immagine di derivazione fotografica, ancora in bianco e nero. Vincendo la sfida tecnica sul terreno della veridicità scientifica, e non su quello della resa poetica! Quando però Seurat tenterà un passo ancora in avanti, verso il contrasto simultaneo, l’idea della rappresentazione mimetica crollerà inesorabilmente. Perché ormai, secondo un fatidico Zeitgeist, è arrivata l’ora dell’immagine in movimento: il cinema! Laddove il moto era prima illusorio e si estendeva nello spazio immaginifico della mente dello spettatore, con il cinema irrompe in tutta la sua cruda realtà veicolato dal dinamismo delle immagini, di cui i futuristi si fecero cantori e audaci sperimentatori, come testimoniano le pellicole di Anton Giulio Bragaglia.

Proprio sulla triade Pittura-fotografia-film si fonda il volumetto, manifesto della Neue Photographie, scritto dall’artista e teorico ungherese Laszlo Moholy-Nagy e pubblicato nel 1925 nella collana “Libri del Bauhaus”. L’autore, l’artista ungherese Laszlo Moholy-Nagy, contemporaneamente alle sperimentazioni fotografiche di Man Ray, ha esaltato l’inedita verità ottica del mondo moderno restituita dallo strumento fotografico mediante inusuali punti di vista, contrasti di luce, inquadrature oblique. Pochi anni dopo questo testo fondamentale per la storia della fotografia, Walter Benjamin, a chiusura della sua Piccola storia della fotografia pubblicata nella rivista Die literarische Welt a Berlino nel 1931, cita, senza esplicitarne la fonte, un’affermazione dell’artista ungherese “Non colui che ignora l’alfabeto, bensì colui che ignora la fotografia, sarà l’analfabeta del futuro» commentando «Ma un fotografo che non sa leggere le proprie immagini, non è forse meno di un analfabeta? La didascalia non diventerà per caso uno degli elementi essenziali dell’immagine?». Benjamin, autore dell’Opera d’arte nell’era della sua riproducibilità tecnica (1936), legando la fine della dimensione auratica dell’opera d’arte tradizionale legata alla sua unicità e indivisibilità al tempo dei mezzi di comunicazione di massa, riconosce il pregio di questa nuova dimensione democratica dell’opera d’arte non più destinata a un’elite ma accessibile a un pubblico più ampio. In realtà l’aura era nel frattempo slittata, con Duchamp, dall’opera all’artista stesso, come testimoniato da Belle Haleine – Eau de Violette di Rrose Sélavy (1921) con cui l’artista, nello stesso anno in cui viene lanciato sul mercato Chanel n. 5, gioca sul valore autoriale dell’opera d’arte che, come un brand, è garantito dal nome stesso dell’autore, alchimista. Da notare come sulla boccetta del profumo, sia effigiato il ritratto fotografico di Duchamp stesso travestito da donna, opera del suo amico fotografo Man Ray: la foto ritratto anziché restituire una immagine obiettiva e quindi fedele dell’autore in realtà è l’ennesima trappola, burlesca, tesa dall’artista al suo pubblico.

L’opera d’arte entra nella sua fase di riproducibilità tecnica e di precisa riproduzione della realtà.
La foto porta il vessillo della narrazione di verità, ovvero della cronaca (Baudrillard), mentre la pittura si dedica alla narrazione di tante piccole storie che rimangono nell’agone dell’epica. Così mentre Honoré Daumier guarda a Watteau, per portare le piccole storie del “dolce vivere prima della Restaurazione”, come lo chiamerà il principe di Talleyrand, a un livello epico, Marcel Carné guarderà a Daumier per tradurle in racconto diverità nel film Les Enfants du Paradis, in cui la figura storica del mimo Baptiste Dubureau introduce, complice la sceneggiatura di Jacques Prévert, anche quella tradizionale di Pierrot. Figura poi ripresa in pittura proprio per il portato polisemico che le appartiene, e non sfuggito a un occhio come quello di Picasso, che farà del suo Arlecchino l’icona della gioventù perduta. La pittura assorbe dunque, agli inizi del XX secolo, il linguaggio della fotografia, per dichiararsi strumento per eccellenza di indagine della realtà.

Come sostiene Alessandro Bertinetto in “La forza dell’immagine” (pp.45 e sgg.), un filosofo dell’immagine come Wiesing sostiene che esistono oggi tre orientamenti principali nell’indagine intorno all’immagine: antropologico, semiotico e percettologico. Mi sembra opportuno discutere brevemente queste tre posizioni generali, integrando però successivamente la disamina di Wiesing con due altri orientamenti: l’orientamento mediologico (proposto dallo stesso Wiesing) e l’orientamento ermeneutico, basato sulla nozione di “differenza iconica”. I rappresentanti della corrente antropologica sarebbero tra gli altri Hans Jonas, Vilém Flusser, J.-P. Sartre, e Hans Belting. Comun denominatore delle loro teorie sarebbe l’idea dell’immagine come artefatto umano. La tesi generale è che “le condizioni di possibilità della produzione di immagini sono identiche alle condizioni di possibilità dell’esistenza umana cosciente”, perché “soltanto un soggetto che abbia rappresentazioni [mentali: Vorstellungen] […] può produrre anche raffi gurazioni [Darstellungen]; per produrre un’immagine egli ha bisogno della capacità di figurazione mentale [Fähigkeit zur mentalen Bildlichkeit]: l’immaginazione [Einbildungskraft]” (WIESING 2005, p. 19. Sulla posizione di Jonas cfr. GARELLI 2005, pp. 109-140. Su Sartre cfr. FLYNN 1975, CABESTAN 2007.). Secondo questa impostazione, la rappresentazione figurativa mentale non è soltanto condizione della produzione di immagini, ma anche condizione di possibilità della coscienza; così le immagini mentali e le immagini figurative sarebbero fondamentalmente la stessa cosa. Wiesing critica questa impostazione appunto a causa di quella che ritiene essere una confusione tra l’immagine mentale e l’immagine figurativa-visiva: una confusione che è sintomo dell’accettazione non tematizzata di un pregiudizio antropomorfi co che spinge a privilegiare l’immagine del corpo umano rispetto ad altri contenuti figurativi. (In questa posizione, definita da Wiesing antropologica, si ritrovano invero due orientamenti piuttosto diversi. Da un lato l’orientamento fenomenologico di Sartre (SARTRE 2007), legato alla sua teoria della coscienza, il quale offre una rilevante analisi filosofica del concetto di immagine come presenza-assenza in contrasto alla realtà oggettuale della cosa. Dall’altro lato la tesi antropologica di Belting (BELTING 1990 e 2001) e DEBRAY 1999, che intendono l’uomo come “luogo dell’immagine” e indagano l’origine dell’immagine nelle pratiche cultuali di presentificazione del defunto assente e nella rappresentazione del divino, così come i rapporti tra immagine e magia, la forza retorica dell’immagine e le questioni legate alla mediatizzazione dell’uomo visivo: sono tesi affascinanti dal punto di vista della storia della cultura, che lasciano tuttavia ampi spazi di vaghezza sotto l’aspetto della determinazione concettuale della struttura e del funzionamento dell’immagine.) Il secondo orientamento è costituito dalla linea semiotica, che considera l’immagine come una forma di segno o simbolo. (Cfr. PEIRCE 1998 e GOODMAN 2008. Peirce distingue, com’è noto, tra icona (segno per somiglianza), indice (segno per causa ed effetto) e simbolo (segno convenzionale). Un’eccellente discussione della semiologia dell’immagine di Peirce, in relazione alle teorie della percezione, dell’immagine e della rappresentazione di U. Eco, N. Goodman, R. Arnheim e E. Gombrich (tra gli altri) è quella offerta da CARREÑO 1988. Come Peirce e i semiologi, Carreño considera l’immagine un segno; il problema del riferimento dell’immagine è risolto grazie alla distinzione tra oggetto immediato e oggetto dinamico dell’immagine. Oggetto immediato è quello che appare nell’immagine come l’oggetto rappresentato in questa immagine particolare. Oggetto dinamico è quello inteso dall’immagine; esso può essere comune a diverse immagini e la sua interpretazione non è mai definitiva. La peculiarità della tesi di Carreño consiste nell’idea che la relazione reciproca tra immagine visiva e linguaggio sia elemento essenziale di entrambi (immagine e linguaggio). Le concezioni della relazione vigente tra il “presentante” e il “presentato”, tra il “designante” e il “designato” sono però assai diversificate. (Tale distinzione richiama la classica distinzione strutturalista tra significante e significato, codificata in SAUSSURE 2007, che a sua volta costituisce uno sviluppo dell’antica distinzione stoico-agostiniana tra due aspetti del segno, semainon e semainómenon, ovvero signans e signatum.) Secondo Peirce l’icona è simile a ciò che essa designa. Invece Goodman critica l’idea che la relazione tra simbolo (o segno) e oggetto figurato si fondi sulla somiglianza. Com’è noto, egli argomenta che il concetto di somiglianza è troppo lasso per poter servire come base per una definizione del rapporto immaginale. Sotto un qualche aspetto qualsiasi cosa somiglia a qualcos’altro: quindi, il criterio della somiglianza non è determinante né discriminante per fondare il rapporto segnico. Infatti, tutto può stare-per qualcos’altro e denotarlo. Intesa come segno, l’immagine sarebbe comunque caratterizzata da una struttura tripartita. L’immagine è costituita da un portatore segnico materiale (significante), un contenuto ‘interno’ (senso, designato, intensione: Sinn) e da un riferimento ‘esterno’ (significato, estensione: Bedeutung). Secondo Wiesing l’orientamento semiotico non riuscirebbe tuttavia ad esplicitare il funzionamento di questo triplice rapporto di rinvio, in particolare perché considera centrale la relazione tra supporto segnico materiale e riferimento, mentre occorrerebbe piuttosto concentrare l’attenzione sulla relazione tra il contenuto interno dell’immagine e il riferimento esterno. Più in generale, la differenza tra immagine e segno è di natura essenziale: le immagini possono essere adoperate come segni, ma non sono segni (benché alcuni segni siano anche immagini e alcune immagini siano anche segni). (Cfr. in proposito anche BRANDT 1999, in particolare, p. 132. Su basi diverse insiste sulla specifi cità dell’immagine rispetto al segno anche DEBRAY 1999, pp. 39-41.) Il segno è determinato in modo funzionale: qualcosa è segno se funziona come segno. La stessa cosa non vale però nel caso dell’immagine. Infatti, come argomenta Christoph Asmuth (cfr. ASMUTH 2005 e 2006), l’immagine è immagine di qualcosa, il segno è segno per qualcosa. Nell’immagine la relazione di rinvio è cioè immanente. Ciò che l’immagine esibisce è-nell’-immagine, è suo proprio contenuto interno. L’immagine di un uomo rappresenta un uomo in quanto un uomo è raffigurato dall’immagine, ovvero la fi gura di un uomo appare nell’immagine. Nel segno la relazione di rinvio è invece trascendente. Il segno funziona come un Stellvertreter: indica qualcosa in quanto lo rappresenta prendendone il posto, facendone le veci. Le due funzioni possono coesistere nello stesso oggetto materiale, nello stesso supporto fisico, ma ciò non toglie che si tratti concettualmente di due diverse entità. In una moneta appare l’effige di un re, la moneta raffi gura un re; dunque la moneta è immagine di un re. Quella stessa immagine indica simbolicamente il potere del re che garantisce il valore della moneta, ed è dunque segno per tale potere, che non appare figurativamente nel supporto materiale
della moneta. Dunque, la funzione segnica è istituita dall’uso che si fa di un dato oggetto; per le immagini è invece essenziale la visione, l’intuizione. Per questo non può soddisfare neppure lo sviluppo della teoria semiologica proposto per es. in SCHOLZ 2004. (Cfr. pp. 137 ss.) Sulla base della constatazione che una semplice marca, traccia o impronta non sia di per sé un’immagine, Scholz integra le tesi di Goodman attraverso una teoria pragmatica basata sull’idea che a determinare l’immagine sia il suo uso in certi contesti. Tuttavia, sebbene il successo dello svolgimento della sua funzione di rinvio da parte di un segno dipenda da un contesto di riferimento, questo non sembra valere per l’immagine. L’immagine non può essere spiegata unicamente in virtù del suo uso nel contesto di un processo comunicativo. Infatti in tal modo si trascura l’apparire dell’immagine, che è un fattore imprescindibile dell’immagine stessa. Secondo l’orientamento percettologico che ha la sua origine nella fenomenologia husserliana (Cfr. HUSSERL 1980. Sulla teoria dell’immagine di Husserl cfr. CALÌ 2002.), le immagini (se si vuole: i segni iconici, i segni-immagini) si distinguono dunque dagli altri segni perché, intese come forme, esibiscono qualcosa. Secondo questa linea teorica, un’immagine è costituita da tre elementi: un supporto o veicolo dell’immagine (Bildträger), consistente in un oggetto materiale, un soggetto dell’immagine (Bildsujet), l’oggetto reale, a cui ci si rapporta, e un oggetto immaginale (Bildobjekt), il quale non è un oggetto reale, ma un oggetto intenzionale: quest’ultimo è costruito nella, ovvero attraverso la, percezione. Per esempio, è possibile pensare a un quadro costituito da una tela colorata montata su una struttura lignea (Bildträger), in cui è raffigurata una casa: il soggetto o tema della raffigurazione è la casa (reale o immaginaria) di cui il quadro offre la raffigurazione; l’oggetto dell’immagine è invece la casa che si vede nel quadro. Tale oggetto che appare alla visione è il fulcro intorno a cui ruota tutto il processo dell’apparizione dell’immagine. L’orientamento percettologico si distingue quindi da quello semiologico, perché si concentra sull’oggetto che appare nell’immagine (disegno, dipinto, fotografi a, ecc.), lasciando in secondo piano il rapporto di denotazione tra la raffigurazione e il riferimento extra-immaginativo. (Questo orientamento è ben argomentato da SPINICCI 2008.) Si è visto che per l’orientamento semiologico il contenuto dell’immagine, ovvero il senso, non è intuibile, ma costituisce la regola del riferimento di un segno a qualcosa e in tal senso le immagini sono lette. (WIESING 2005, p. 31.) Al contrario, secondo l’impostazione percettologica, le immagini sono osservate: sono in quanto appaiono. L’oggetto immaginale intenzionale è un tipo particolare di oggetto intenzionale della coscienza che si presenta, per usare la definizione di WIESING 2005 (p. 7) come una “presenza artificiale”, non sostanziale. La teoria percettologica dell’immagine sarebbe dunque preferibile rispetto all’orientamento antropologico e a quello semiologico, soprattutto in virtù della rilevanza attribuita al contrasto tra immagine e oggetto: l’immagine non è un oggetto sostanziale per motivi strutturali e di principio. Ciò che la caratterizza non è l’intenzionale attribuzione di una relazione sintattico-semantica, ma l’apparire di un oggetto artificiale, sostanzialmente irreale, attraverso un supporto materiale che è semplice medium. Pertanto, mentre i segni possono essere sostituiti da altri senza perdita di significato, ogni immagine è insostituibile. In tal modo, com’è stato osservato, Wiesing sviluppa la definizione husserliana come “coscienza della presentificazione di ciò che non appare in ciò che appare” (“Bewußtsein der Vergegenwärtigung eines Nichterscheinenden im Erscheinendem”. La definizione è tratta dal titolo del § 14 di HUSSERL 1980: Die Gegebenheit der bewußten Beziehung auf das Bildsujet durch das Bewußtsein der Vergegenwärtigung eines Nichterscheinenden im Erscheinendem.) – che peraltro Husserl applica solamente all’immagine figurativa – in una teoria mediatica dell’immagine, teoria che si può considerare come un quarto orientamento generale rispetto al problema dell’immagine. Secondo tale teoria il supporto fisico, il veicolo dell’immagine (la picture) sarebbe semplicemente un medium, un mezzo per l’apparire. (Cfr. anche BÖHME 2004) L’immagine vera e propria sarebbe soltanto l’oggetto immaginale evocato attraverso il supporto fisico: in tal modo l’immagine offerta dal quadro “Monna Lisa” di Leonardo che si trova al Louvre, l’immagine della Monna Lisa trasmessa in televisione o su internet, l’immagine del quadro della Monna Lisa riprodotta in una fotografia del quadro o stampata su una maglietta e l’immagine della Monna Lisa che ho in mente sarebbero la stessa immagine, in ogni tempo e per tutti. Tuttavia, è stato obiettato, così come le immagini non sono segni, per quanto possano essere utilizzate come segni, esse non sono media, per quanto possano essere utilizzate come tali. La prestazione dell’immagine non consiste soltanto nella mediazione, ma anche nell’esibizione. Su questa base, SCHWARTE 2008 ha rivendicato la veridicità e la realtà dell’immagine. E ha sostenuto le seguenti tesi. a) L’immagine “non è solamente virtuale, ma è presente fisicamente”, incorporata in un oggetto fisico in rapporto con altri oggetti fisici. L’immagine è una cosa nel mondo. Tuttavia non è un fatto, ma un atto: un atto di autoesibizione.
b) Pur essendo nel mondo, l’immagine è anche negazione del mondo, perché può contrapporsi agli schemi dominanti dell’esistenza interrompendone il continuum. In tal senso, è caratterizzata da quella che G. Boehm ha chiamato “differenza iconica”. c) L’immagine è traccia, riflesso, impronta, documento della verità. d) L’auto-esposizione dell’immagine non nega soltanto il contesto percettivo in cui si colloca, e non è solo la traccia che rimanda all’altro da sé. È anche “presentazione performativa e configurazione di vitalità” (SCHWARTE 2008, p. 123.), Bildung: (tras)formazione del mondo presente attraverso un’esposizione di sé che è al contempo autosottrazione. Infatti, mostrandosi come immagine, essa presenta per contrapposizione la realtà di cui è riflesso e traccia; si cancella come copia per far apparire l’originale. Schwarte sviluppa in tal modo le tesi di Boehm, che hanno, tra gli altri, il merito di esplicitare alcuni aspetti della definizione che H.-G. Gadamer aveva offerto dell’immagine come Zuwachs am Sein (l’“aumento d’essere” e cioè l’arricchimento del contenuto ontologico che l’immagine apporta al rappresentato) (GADAMER 1960, parte I, cap. II § 2.a.), nel quadro generale della riscoperta della fecondità della tradizione austro-tedesca radicata negli studi intorno alla costruzione dell’immagine come pura visibilità (reine Sichtbarkeit) (Si tratta della linea di ricerca portata avanti tra Ottocento e Novecento da autori quali Konrad Fiedler (1841-1895), Adolf von Hildebrand (1847-1921), Alois Riegl (1858-1905), Heinrich Wölffl in (1864-1945), i quali in generale sostengono che l’immagine è formativa e rende visibile, manifesta, fa apparire qualcosa che altrimenti rimarrebbe ‘non-visto’.). In un saggio del 1994, in cui rinvia esplicitamente al celebre studio di Merleau-Ponty sulla pittura di Cézanne, Boehm spiega così le immagini come processi di esibizione che non si limitano a ripetere il dato, ma “danno a vedere qualcosa”. (BOEHM 1994b, p. 33, tr. it., p. 49 (cfr. BOEHM 2009, p. 47). Ci si riferisce ovviamente a MERLEAU-PONTY 2009.) Egli scrive: Le immagini non funzionano come specchi rigidi […]. La semplice riproduzione è la più banale, seppure la più diffusa, espressione di una figuratività completamente vuota. Dalle immagini autentiche ci attendiamo, al contrario, non solo una conferma di quanto già sappiamo, ma un plusvalore, una crescita d’essere (GADAMER 1960, p. 175). Le immagini autentiche implicano perciò un processo interno, un contrasto iconico di cui abbiamo visto gli aspetti (incarnare versus rappresentare). (BOEHM 1994c, p. 332; tr. it. in BOEHM 2009, p. 77.)
Solo questo contrasto interno, proprio delle immagini, ci fa capire come il senso possa mostrarsi nella materia. Questo “contrasto” è la differenza pittoriale o iconica che produce l’immagine. Essa è basilare per comprendere l’immagine differenziandola dalla mera copia. Tuttavia sembrerebbe che per Boehm la “differenza iconica” consista semplicemente nel contrasto tra fi gura e sfondo. In altre parole, come Boehm chiarisce in un lavoro più recente, l’iconicità, l’immaginalità, risiederebbe in “una differenza realizzata dal vedere” (BOEHM, 2004, p. 32; tr. it. in BOEHM 2009, p. 109), che fonda la possibilità sia della visione di qualcosa alla luce di qualcos’altro sia della possibilità di vedere poche linee tracciate su una superficie come una figura. La posizione di Boehm concerne dunque la percezione estetico-sensoriale, come risulta evidente se si legge quanto segue: La differenza iconica rappresenta un principio di distinzione, di contrasto visivo, in cui al contempo si fonda un vedere-insieme. Le sintesi iconiche sono già fondate nella struttura della nostra percezione […]. (BOEHM 2004, p. 41; tr. it. leggermente modifi cata in in BOEHM 2009, p. 120.) Solo l’immagine effettivamente vista […] in verità è divenuta completamente immagine. Parrebbe che la “logica (non-predicativa) dell’immagine”, di cui Boehm intende farsi promotore, possa servire a offrire una base per la distinzione, applicata da Richard Wollheim alla rappresentazione pittorica, tra seeing in e il seeing as. (Cfr. WOLLHEIM 1974, pp. 207-218. Non mi soffermo sulla teoria della rappresentazione di Wollheim; andrebbe affrontata in questo quadro anche la tesi della centralità dell’intenzionalità dell’artista. In generale, sarebbe fuorviante entrare in questa sede nel merito delle discussioni sulla depiction e sulla visualizzazione, temi cari soprattutto ai filosofi contemporanei di orientamento analitico e fenomenologico.) Il vedere-in è per Wollheim la “capacità percettiva” di avere una visione duplice, cogliendo cose non presenti ai sensi, cioè ‘inesistenti’, ‘assenti’, ‘attraverso’ la percezione di qualcosa che è presente ai sensi: per esempio, nel quadro di Cézanne percepisco il monte Sainte-Victoire nella superficie colorata della tela. Si tratta quindi di un vedere che si pone in discontinuità con la percezione ‘normale’, al cui riguardo è centrale il riconoscimento dell’intenzionalità rappresentativa dell’artista, e che comporta la consapevolezza della distinzione tra contenuto rappresentato e mezzo espressivo. Il vedere-come è invece la visione di un oggetto nei termini di questo o di un altro oggetto, sotto un certo aspetto, ovvero come dotato di certe proprietà: vedere per esempio in certe sezioni del quadro la composizione di certe linee e colori come il monte Sainte-Victoire. Si tratta di un vedere che non comporta la separazione tra mezzo e contenuto. Mi sembra che nella spiegazione della depiction, ovvero della raffigurazione pittorica, Wollheim privilegi il vedere-in. Invece con la tesi della “differenza iconica” Boehm sembra optare per una sorta di soluzione mediana tra il vedere-in e il vedere-come: la visione di una fi gura che si struttura come una certa forma sulla base dell’organizzazione differenziale di certi elementi, appartenenti a un certo spazio del visibile, rispetto a uno sfondo da cui emerge. (Anche VERCELLONE 2010 sostiene l’esigenza di sviluppare una logica dell’immagine. Egli la intende però come una logica della “struttura dell’immagine” che dovrebbe collocarsi accanto alla logica discorsiva: si tratterebbe così di capovolgere l’anestetizzazione dell’immagine compiuta, tra l’altro, dalla trasformazione dell’estetica in filosofia dell’arte e di comprendere lo sviluppo logico delle forme viventi anteriori alla semantizzazione discorsiva, al fine di consentire un ritorno della potenzialità dell’immagine. Se si intende una tale logica dell’immagine come quella logica trascendentale in grado di esibire la genesi della stessa concettualità discorsiva, senza però appiattire la dimensione del concetto su quella dell’intuizione, la proposta di Vercellone va nella direzione dell’idea fichtiana della filosofia come Bildlehre, alla cui disamina è dedicato questo lavoro.) Ma questa concezione è in generale sufficiente per rispondere alla domanda intorno all’immagine? Soddisfa l’esigenza di fondazione del concetto di immagine? Per ragioni che risulteranno più chiare in seguito, mi sembra che le concezioni di Schwarte e di Boehm non siano ancora sufficienti per comprendere il concetto di immagine. Certo, il concetto di “differenza iconica” e la tesi del carattere (almeno in parte) negativo dell’immagine, l’idea dell’immagine come “atto di autoesibizione”, il concetto dell’immagine come impronta e riflesso, l’affermazione del carattere formativo, “gestaltico” e vitale dell’immagine sono risultati sicuramente felici di questo orientamento di ricerca intorno al problema dell’immagine. Ciò che non convince è tuttavia la concezione dell’immagine come una “cosa nel mondo” e la limitazione dell’indagine agli aspetti visivo-sensoriali. A questo riguardo è di importanza centrale la distinzione tra picture e image, tableau e image, generata dalla differenza iconica. (Come propone POLANYI 1994, p. 155.) Se la picture è certamente ‘cosa’ che si vede, lo stesso non si può dire della image. In tal senso mi sembra che la concezione fenomenologica e mediologica dell’immagine, che distingue tra il supporto fisico dell’immagine e l’immagine come ‘presenza-assenza’, non sia da abbandonare, ma, piuttosto, da approfondire e radicalizzare. Un passo in questa direzione è compiuto da Mitchell, il quale distingue tra picture e image, cioè tra la raffigurazione (pittorica o mentale) e l’immagine in quanto relazione, Picture è un oggetto materiale, qualcosa che si può bruciare o rompere. Image è ciò che appare in una picture, ciò che sopravvive alla sua distruzione – nella memoria, nella narrazione, in copie e tracce preservate in altri media. (MITCHELL 2008, p. 9; cfr. pp. 107-108: “L’image è ciò che può essere separato dalla picture, trasferito in un altro mezzo, tradotto in un ékphrasis verbale, o protetto dal diritto d’autore. L’image è la “proprietà intellettuale” che sfugge alla materialità della picture quando è riprodotta. La picture è il risultato dell’unione di immagine e supporto; è la manifestazione di un’immagine immateriale su un medium materiale. Ecco perché possiamo parlare di immagini architettoniche, scultoree, cinematografi che, testuali e anche mentali, senza dimenticare che l’immagine che si trova in o su questi oggetti non è tutto ciò che li costituisce”.) Il che confermerebbe che l’immagine non è un medium: appare sempre in un medium, ma “trascende i media e può essere trasferito da un medium all’altro”(Ivi). Lo stesso Mitchell insiste poi sulle capacità autoriflessive dell’immagine, distinguendo un sottogruppo di pictures, le metapictures, capaci di portare a riflessione la figuralità, l’immagine dell’immagine: basta pensare agli ovvi esempi di opere come Las Meninas di Velazquez o La Trahison des images di Magritte. Tuttavia il concetto di metapicture pare essere più complesso, coinvolgendo non soltanto il figurativo, ma anche il metaforico: metapicture è infatti per Mitchell anche l’idea di una “vita” o “vitalità delle immagini”, che consiste nella capacità delle immagini di introdurre nel mondo nuove forme di valore, contrastando i nostri criteri, costringendoci a cambiare le nostre idee”. (Ib., p. 116) Tale idea sarebbe confermata anche dall’atteggiamento che l’uomo manifesta nei confronti delle immagini: “L’iconofilia e l’iconofobia possono avere senso soltanto per chi pensa che le immagini siano vive”. (Ib., p. 117.) Con l’affermazione di una vita propria (che si manifesterebbe non tanto in un “potere”, ma in un “desiderio” delle immagini) in virtù della quale le immagini formano collettività sociali, Mitchell riprende così l’insegnamento di Nelson Goodman, il quale vedeva nelle immagini “‘modi di fabbricare mondi’ che producono nuove disposizioni e percezioni del mondo”. (Ivi. Cfr. anche MITCHELL 2009. L’idea dell’immagine come soggetto di desiderio mi risulta comunque di difficile comprensione.) La proposta di Mitchell, così come questo richiamo a Goodman e alla tradizione, risalente a Cassirer e a Kant, dell’immagine e del simbolo come modalità di costruzione creativa e morfologica del mondo, sono quindi grande interesse. Con la meta-immagine della vitalità dell’immagine, e delle immagini come esseri-viventi, chiarisce Mitchell, non si intende proporre un modello biologistico di immagine. Infatti, tale meta-immagine risulta davvero efficace per comprendere le immagini non come “cose”, ma come “processi” di costruzione, configurazione, del reale, soltanto qualora tale metafora sia utilizzata proprio per interrogare il modello biologistico di vita mediante la nozione dialettica di vita come categoria logica (contrapposta alla – e insieme implicante la – categoria di morte). Si vedrà che la filosofia trascendentale dell’immagine di Fichte dev’essere inserita nella tradizione della linea costruttivista Kant-Cassirer-Goodman (e ora Mitchell), anche in virtù della sua comprensione dialettica del rapporto tra immagine e vita. Tuttavia resta qualche dubbio su alcuni aspetti della proposta di Mitchell, che mi pare opportuno segnalare brevemente. Anzitutto non è chiaro perché Mitchell, una volta distinte image e picture, non introduca anche la distinzione tra meta-picture e meta-image e si limiti a parlare di metapicture. Il tipo di autoriflessività che attiene a raffigurazioni come quelle dei quadri di Velazquez e di Magritte sopra citati è la stessa che opera nella metafora della “vita delle immagini”? Qualunque sia la risposta, bisognerebbe indicare perché si è deciso di privilegiare la meta-picture, laddove l’immagine della vitalità delle immagini sembrerebbe piuttosto una “metaimage”. In secondo luogo, sembrerebbe che la riflessività sia propria, secondo Mitchell, soltanto di alcune particolari immagini. Mi pare invece che avesse ragione Fichte a sostenere, come si vedrà, che si tratta piuttosto di una possibilità costitutiva dell’immaginalità come tale. In terzo luogo, ritornando al concetto di ‘medialità’, mi sembra che essa debba concernere non soltanto la capacità di una cosa, di un oggetto fisico, di fare da supporto a un’immagine. Piuttosto, la ‘medialità’, insieme all’aspetto ‘presentazionale’, concerne l’immagine come relazione e atto autoriflessivo. L’immagine dev’essere pertanto sottoposta a un’indagine logico-trascendentale che comprenda la ‘differenza iconica’ come condizione di possibilità genetica dell’immagine (image), posizione dell’immagine in quanto immagine (aspetto ‘presentazionale’) attraverso la differenziazione tra immagine ed essere (aspetto ‘mediatico’). Tale indagine, che fa leva sulla costitutiva capacità autoriflessiva dell’immagine, spiega che la ragione per cui l’immagine non è un oggetto, per quanto configuri e pertanto costruisca oggetti ed esperienze, è che l’oggettività è risultato di un’attività figurativa e come tale appare in rapporto all’immagine e come suo prodotto. Per questo la teoria dell’immagine deve anzitutto comprendere non solo il concetto di immagine, ma anche l’immagine come concetto. Su questa base sarà possibile poi analizzare e chiarire specifiche problematiche come quelle della raffigurazione visiva e dell’immagine di fantasia. Una tale teoria dell’immagine è quella elaborata da J.G. Fichte sulla scorta della rielaborazione dell’eredità filosofica (neo)platonica e attraverso il filtro di una radicale rifondazione della teoria kantiana dello schematismo. La sua proposta teorica è quella di una logica trascendentale che comprende l’immagine in quanto immagine. In questa logica l’immagine non è soltanto oggetto dell’indagine, ma anche suo motore. Una logica non delle immagini (BOEHM 2004), dunque; ma, piuttosto, dell’immagine, nel doppio senso del genitivo. Una logica in cui la comprensione dell’immagine in quanto immagine consente di fondare riflessivamente l’esperienza e il pensiero (il logos): l’esperienza della coscienza naturale-empirica e quello stesso pensiero filosofico che, a partire dal concetto di immagine, determina geneticamente le condizioni di possibilità dell’esperienza, del pensiero, del sapere. Per questo sono convinto che “addentrarsi nel ruolo speculativo [e trascendentale] della ‘dottrina dell’immagine’ […] in Fichte” lungi dall’essere “fuorviante” (BOEHM 1994B, tr. it., p. 44; cfr. BOEHM 2009, p. 41.), sia assai utile ai fini della comprensione dell’immagine.

Osserviamo ora ad esempio il famoso paesaggio marino di William Turner, in cui egli inserisce, con riprovazione di tutta la critica a lui contemporanea e costernazione dei colleghi accademici, una boa rossa: egli con l’introduzione di questo elemento “alieno” rompe tutta la dimensione e la struttura compositiva: è addidato dai coevi come un “pugno nell’occhio” che sovverte i canoni della prospettiva tradizionale. Una rottura con la tradizione paragonabile a quella decisa da Kandinski con il primo acquerello astratto. Ma che non sfuggirà a un occhio allenato alla ripresa fotografica come quello di Degas, che citerà quel punto rosso per farne il cap del fantino di un cavallo che “corre fuori dal quadro”, disarcionando letteralmente i canoni compositivi contemporanei. Se solo si guarda a un altro grande innovatore della pittura francese di due generazioni prima come Theodore Gericault si nota uno scarto incolmabile della ripresa del soggetto: Degas si colloca dichiaratamente nella nuova tradizione che appartiene all’obiettivo fotografico.
E allo stesso modo, se le ombre colorate teorizzate da Monet riprendono ancora l’idea tonale di Giovanni Bellini, il manto del cavallo di Degas che riverbera un’ombra densa di sudore non può esistere se non dopo la nascita della fotografia.
Fotografia versus pittura dunque: la foto nasce come documento storico, e la prima guerra ad essere così immortalata sarà quella di Secessione americana nel 1860. Saranno i dagherrotipi a veicolare in immagini per la prima volta per tutto il globo i fatti di guerra. A questa forza di immediatezza non filtrata risponde la pittura realista; Millet nell’Angelus affida ad essa la capacità poetica di una linea del sacro che l’Occidente ha coltivato e che genererà il divisionismo, e tutta l’idea sacrale e panica che in essa verrà riposta. Così Van Gogh, in questo si dichiara erede diretto di Millet. L’altro padre del realismo, Courbet, porta lo sguardo fotografico a una soggettiva che solo la pittura può coronare di poesia, e il soggetto più umile, sia pure uno spaccapietra, diviene il protagonista di una nuova epica. Le figure che si stagliano nel primo piano sono un diretto rimando a Veronese e alla pittura veneta, in cui il protagonista calca la scena, padrone del suo destino. Un destino che ha preso forma, per la prima volta, nella formidabile rappresentazione di Michelangelo, affrescata nella Cappella Sistina, in cui alla densità unica di ambiente si addensa un’umanità via via più carnale, esattamente come farà Courbet nell’Atelier dell’artista: lo sfondo vagheggiato e via via la lente mette a fuoco l’umanità, fino al ritratto indimenticabile di Baudelaire. Infine Daumier sarò il terzo grande realista che entrerà in scena con un tipo di racconto sceglie come tema l’esistenza umana, e in questo sarà il padre di un cinema che, da John Ford, con Furore, al Neo-realismo di Rossellini e De Sica, si imbiberà di questo nuovo racconto.

L’incontro contemporaneo tra cinema e pittura è costituito da un dialogo costante e sempre più fitto, da Andy Warhol a Peter Greenaway, da Hitchcock a David Lynch, dal gruppo AES+F a Bill Viola, per citarne solo alcuni. Le immagini dei video e delle installazioni di Viola, come nota ad esempio Bordini, portano l’incanto di modificazioni quasi impercettibili che sembrano evocare quelle della crescita e della mutazione organica. Viola rende visibile qualcosa che sembra appartenere ad una vita in un’altra dimensione dell’esistente, una dimensione mentale e emotiva, invisibile all’occhio fisico, in cui il tempo diventa il veicolo apodittico di un’aspirazione a cogliere emozioni e sensibilità dimenticate. Non a caso nella poetica di questo artista sono centrali alcune tematiche esistenziali, legate a sensazioni in qualche modo primordiali, che sfiorano il sentimentalismo e la retorica ma ne sfuggono sempre, con una sorta di spudorata innocenza, proprio per la qualità e l’intensità delle immagini: la condizione dell’essere tra la nascita, il vivere e il morire, il buio, la luce, la solitudine, il sonno, il battito del cuore, il silenzio, l’immersione nell’acqua, la rinascita, il respiro. Passaggi. E non a caso il modello di queste immagini si configura in riferimento alla grande arte rinascimentale. Come per vari altri artisti, per Viola il guardare alla pittura del passato suggella una dialettica dell’immagine in cui entrano potentemente il tempo (la storia) e la memoria, ed è forse anche un modo per nobilitare le cosiddette nuove tecnologie, impastandole, per così dire con i canoni ratificati dell’arte». (Cfr. S. Bordini, Più simile a nuvola che a una roccia, pp. 210-211)

Fino all’uso della pellicola fotografica, bastava scegliere una certa marca e già si sapeva che tonalità cromatica avrebbe impressionato il nostro mondo. Ma ciò che realmente può trasformare il mondo, ricorda Georges Melies nel suo celeberrimo Voyage dans la lune (1902), che vi adatta appositamente due versioni, una a colori e una in bianco e nero, è il nostro occhio. Per esso quella pellicola assume una doppia dimensione: il bianco e nero sarà la storia che avverrà sessant’anni dopo, ed è cronaca. La pellicola in bianco e nero pone domande e risponde a una idea di una freccia del tempo diretta verso il futuro. La pellicola a colori è l’onirico, il viaggio sognato, l’epico viaggio di Ulisse, che sarà poi quello di Gauguin, Van Gogh, Serusier, Emile Bernard… è l’enigma, è il gnòse àuton, la forma circolare del tempo.

Ma, come la società dei media insegna, l’immagine lavora anche per accumulazione.
Una coppia di amanti in fuga dal mondo, un (improbabile) plot noir, una società sterile. Il mare, la natura, le confessioni, un diario. La Ford Galaxy del ’62, L’Alfa Romeo, Samuel Fuller, Velasquez, Le Grand Escroc. Jean-Luc Godard, Jean-Paul Belmondo, Anna Karina (e Jean-Pierre Leaud, aiuto regista). Questi alcuni degli ingredienti che vengono lanciati (apparentemente senza logica), come macchie di colore, sulla tavolozza che darà vita al tableux Pierrot Le Fou. Godard affronta il Romanticismo, e lo fa a modo suo, ovvero in forma di saggio-poesia: i due protagonisti sono (dovrebbero, vorrebbero essere) “gli ultimi discendenti della Nuova Eloisa, del Werther e di Ermanno e Dorotea”. Il loro rifiuto della civiltà senza sentimento in cui vivono si manifesta attraverso tutte le forme tipiche (e, in Godard, volutamente, freddamente stereotipiche) dell’universo romantico: il viaggio, nella sua variante della fuga, l’amour fou, la scrittura (il diario di Pierrot), la confusione con la natura (o il suo tentativo, soprattutto nella parte centrale, semi-parodia del Robinson Crusoe), la solitudine, la follia. Pierrot è una specie di intellettuale/artista/criminale che ricerca un’unità laddove ormai regna solo frammentazione e alienazione. Vorrebbe essere uno con il tutto: con se stesso, poi con la natura, con Anna Karina, forse persino con il pubblico, più volte interpellato. Non può. Certamente non può oggi, in questo mondo. Il colore è l’attante che si fa portavoce del sentore del suo fallimento: colori puri, campiture piatte, effetti da pop art, macchie cromatiche che si richiamano in continuazione, da un capo all’altro dello splendido Techniscope. Il continuo richiamarsi dei colori sembrerebbe evocare e rispecchiare il desiderio di Pierrot verso un’unità che sfiorerà (direi nelle sequenze musical che citano, forse, Vincente Minnelli: un regista non a caso spesso etichettato come “colorista”) ma che non raggiungerà mai del tutto. I colori in Pierrot Le Fou sono infatti nettamente separati l’uno dall’altro, sono campiture di tinte pure in forme geometricamente definite: il massimo che possono fare è, appunto, richiamarsi l’un l’altro, senza mai mischiarsi per dar luogo a tutte le possibili sfumature. La con-fusione è impossibile. Il discorso cromatico iniziato con La Donna è Donna e proseguito nel Disprezzo (guarda caso tutti film in formato widescreen 2,35:1, contro l’1,37 Academy delle altre sue pellicole: come a voler creare un supporto abbastanza largo su cui stendere i colori liberamente) trova qui il suo apice e il suo senso (si veda la maestria con cui Coutard e Godard costruiscono le immagini: i colletti delle camicie e più in generale l’abbigliamento, le auto, gli arredamenti, i parallelepidedi-abitazioni, le bandiere, le luci che scorrono sul parabrezza e che bilanciano la composizione mediante la loro innaturale violenza cromatica). Il personaggio di Anna Karina forse è più consapevole (e meno romantico) di quello di Belmondo, conseguentemente lo tradisce, non condivide con lui fino all’ultimo la sua aspirazione, come Patricia Franchini/Seberg in Fino All’Ultimo Respiro. Dopo averne condiviso i sogni e dopo avergli giurato amore eterno, lei si scopre lontana, isolata, concentrata esclusivamente su di sé: non rimane altro da fare che tradirlo, condannarlo a quella solitudine contro la quale aveva lottato (i colori del suo abbigliamento, quando ricompare dopo essere sparita, si sono fatti più tenui…un indizio intenzionale da parte di Godard?). La distanza ha vinto. Rimane la follia individuale: non a caso, quando Anna Karina fugge in barca con i soldi e il suo nuovo uomo, Pierrot incontra un suo “simile”, il pazzo sul molo che sente una musica che non esiste. E così acquista di senso anche la citazione dal libro su Velasquez, pittore di “folli” e pagliacci di corte, pittore di pierrot e di tristissimi principi-bambini, vero precursore della pittura romantica e della sua attenzione verso la diversità. Pierrot Le Fou è quindi un film romantico? Direi di no. Più che altro è una trattazione sull’impossibilità del romanticismo e la sua conseguente deriva in nichilismo (la celebre sequenza finale). La declamazione degli attori (eccezionale Belmondo), totalmente brechtiana, regala una distanza che non permette confusione allo spettatore con un po’ di spirito critico. Lo stile è quello solito del Godard che svela l’illusione del cinema ad ogni occasione, che guarda da lontano e analizza il comportamento, il pensiero e il linguaggio. Tuttavia, dietro il suo sguardo glaciale, non è impossibile trovare della simpatia verso Pierrot, almeno nel confronto con il resto della società in cui è immerso. E se Fritz Lang nel Disprezzo si erigeva a monumento del cinema libero, del cinema morale, Samuel Fuller (che interpellato sulla natura del cinema risponde: “è un campo di battaglia […] è sentimento”) si erige a protettore di quello romantico, furioso, guerrigliero, anche e soprattutto quando destinato alla sconfitta. C’è ancora chi crede che Godard sia (solo) un distruttore di regole e di senso. Niente di più sbagliato: spesso è proprio dal non senso che Godard costruisce il senso, e con quali argomentazioni! Riguardiamoci Pierrot Le Fou, c’è ancora molto da imparare (da vedere rigorosamente nella versione originale integrale restaurata: evitare il DVD italiano).

Ma dinanzi alla moltiplicazione dei passaggi tra momento creativo a effettiva realizzazione dell’opera in età moderna, come rispondere alle istanze di autorialità, autenticità, riconoscibilità dell’opera d’arte, una volta legate inscindibilmente, se a realizzare di fatto un’opera non è più l’artista ma una macchina o un programma informatico? Nell’arte contemporanea, la distanza tra artista e opera talvolta raggiunge esiti estremi di smaterializzazione fino alla coincidenza dell’opera con il certificato di autenticità. Rimane pertanto l’idea dell’impronta del pensiero dell’artista, della sua volontà che, nel caso della fotografia, comprende anche la definizione a priori della carta, del formato, della tiratura e delle edizioni.
Come noto, giuridicamente, la tutela del diritto d’autore per le opere d’arte si fonda su tre elementi: l’originalità (carattere innovativo), la creatività e il fatto di essere connotate da una forma tangibile. Nel caso della fotografia, affinché sia tutelata dal diritto di autore come opera d’arte – nel qual caso, come previsto dall’art. 2 l.d.a, la tutela si estende all’intera durata della vita dell’autore e fino a settant’anni dalla sua morte – occorre che sia riconosciuta come “opera fotografica” e non semplice riproduzione fotografica, per la quale, invece, in quanto oggetto di diritto connesso è prevista comunque una forma di tutela della durata di 20 anni (artt. 87-92 l.d.a.), ad eccezione delle “fotografie di scritti, documenti, carte di affari, oggetti materiali, disegni tecnici e simili”.
La creatività nella fotografia sussiste, secondo i criteri stabiliti dalla dottrina e applicati dalla giurisprudenza, quando nell’immagine fotografica sono riconoscibili in modo inequivocabile l’ “impronta personale” e l’ “espressione inventiva della personalità” dell’autore, al quale spettano pertanto i diritti patrimoniali e i diritti morali previsti dalla legge.
Nell’arte contemporanea, la fotografia spesso entra a far parte di opere complesse composte da più elementi disomogenei dal punto di vista delle tecniche artistiche, oppure diventa l’unico documento, la sola testimonianza di performance o installazioni effimere, come ad esempio nel caso del landartist Christo.
Come per la scultura, le fotografie e le stampe originali hanno una numerazione (edizione limitata) e una firma a mano dell’artista (sul lato anteriore per le stampe e spesso sul retro per le fotografie).
Solo le tirature firmate e numerate entro le 30 copie, di qualsiasi formato e su qualsiasi supporto, realizzate direttamente dall’autore o sotto il suo controllo possono essere considerate opere d’arte originali. Oltre le 30 copie, l’opera viene definita multiplo.
Le norme della legge sul diritto d’autore sull’opera fotografica tutelano in egual misura anche le immagini digitali. Qualsiasi riproduzione non autorizzata dall’autore è illecita. Tuttavia oggi è impresa ardua proteggere le immagini digitali dal plagio; alcuni sistemi sono forniti dalla chiave di marcatura elettronica che include nell’immagine un codice di identificazione, la filigrana o il marchio (ad esempio, il watermark consente di risalire ai dati dell’autore dell’immagine).
La questione dell’autorialità e della riconducibilità del sistema segnico ed espressivo a una unità creatrice legata a un suo contesto ben preciso di tempo e luogo si arricchisce di nuove riflessioni attivate dalla dimensione partecipativa del networking dove immagini e idee sono condivise, associate, stratificate. Un fenomeno analizzato già negli anni Ottanta da Roy Scott (R. Ascott, Art and Telematics—Towards a NetworkConsciousness, 1984, p. 26, “networking ti pone, in un certo senso, al di fuori del tuo corpo, collegando la tua mente in una specie di mare senza tempo”) e riscontrabile nel lavoro coevo di numerosi artisti che rispondono criticamente all’unidirezionalità del messaggio mass mediale proponendo progetti, utopistici, secondo un’idea di democrazia allargata. Ne sono un esempio i progetti di televisione interattiva realizzati dal Ponton European Media Art Lab come Van Gogh TV (1986) e Piazza Virtuale (1992); i progetti collettivi interdisciplinari cyberpunk di Station Rose come Gunafa (1989); il progetto Europe Report di Radio Subcom dal quale nel 1988 viene tratto, commissionato dall’ORF (l’emittente radiotelevisiva nazionale austriaca) e dal MOCA di Los Angeles il programma radiofonico In Transit.

A partire dalla metà degli anni Novanta, si collocano le ricerche degli artisti della Net Art – tra cui si menzionano Vuk Ćosić, Alexei Shulgin, Heath Bunting, Jodi.org, Olia Lialina, 0100101110101101.org ed etoy – volte alla nascita di un’arte collaborativa, immateriale e libera da intermediari istituzionali.
In alcuni progetti, che presero la forma di software, browser, siti web, performance e installazioni, il dispositivo tecnologico non smette mai di essere decostruito, smontato, usato in maniera imprevista, nel tentativo di tenere in vita una cultura digitale alternativa rispetto a quella imposta dalle grandi corporation.
Un approccio, questo, che la Net Art ha ereditato dalle avanguardie storiche e che non ha mancato di estendere e rinnovare e che è possibile riconoscere in opere storiche come: 386 DX di Alexei Shulgin del 1998, A-Trees, 1999 di Natalie Jeremijenko; Border Xing Guide di Heat Bunting del 2008.
A distanza di vent’anni, la riflessione si è focalizzata sulle conseguenze politiche e sociali degli strumenti informatici che sono pesantemente influenzati dalle corporation e su una infrastruttura multimediale sempre più invasiva e subdola.
“Uniti in un ambiente software comune, i linguaggi della cinematografia, dell’animazione, della computer animation, gli effetti speciali, il graphic design, e la tipografia formano un nuovo metalinguaggio” (Manovich, “Software takes command”, p.110) basato sulla remixabilità, ossia una continua ibridazione e interazione di linguaggi e contenuti multimediali, virtuali. Si osserva quindi il ribaltamento del mito della caverna di Platone: l’uomo di nuovo sta tornando nella caverna dove è immerso in un ambiente di immagini riflesse.
L’arte di oggi si interroga sugli scenari aperti dall’ambiente multimediale, “in cui le tecnologie digitali stanno proliferando più velocemente delle nostre istituzioni culturali, giuridiche o educative che invece non riescono a stare al passo” ” (J. David Bolter, Richard A. Grusin, Configurations, Johns Hopkins University Press, Volume 4, Number 3, Fall 1996, pp. 311-358) e, tramite un’estetica digitale immersiva basata su un gioco degli specchi, ne evidenzia il fenomeno di ri-mediazione dove si confrontano i due imperativi della moltiplicazione delle tecnologie mediatiche e l’immadiatezza ossia l’esigenza di cancellare ogni traccia di mediazione (all’opposto della prospettiva rinascimentale che imponeva una distanza tra il soggetto e le cose, ora il punto di vista è stato sostituito con il punto di essere).

Un autore cinematografico come David Lynch, che è anche artista, ha strutturato il suo film Inland Empire per essere programmato non solo nei cinema, ma anche in altre forme mediali, per esempio “installazioni” all’interno di una mostra o di un museo, ovvero dentro la rimediazione.
In esso rimediazione e intermedialià, e quindi la compresenza di diversi livelli all’interno della riproducibilità mediale e digitale, interagiscono sempre più a cominciare dalla trama dei film, per cui, se le vicende narrate mettono al centro come loro carattere costitutivo l’intermedialità, il contenuto di questa, per essere esplicitato e tradotto, ha bisogno dell’attivazione del processo di rimediazione.
Tuttavia, in che modo accogliere la notizia della recente nascita a Milano, dove da sempre l’arte va a braccetto con la tecnologia, di MIAT- Multiverse Institute For Arts And Technologies, un laboratorio per creare storie altamente immersive destinate alla comunicazione di aziende in cui sono chiamati a partecipare produttori, registi, cineasti indipendenti, artisti, scenografi, supervisori VFX, registi, sviluppatori ecc ecc..?
All’opposto, in tempi recenti con la forzata clausura a causa della pandemia da Covid 19, i musei hanno fatto un massiccio ricorso ai multimedia per raccontare le loro collezioni in modo da avvicinare il pubblico alla cultura facendo ricorso a due strategie: una è la documentazione virtuale di una mostra reale in corso, l’altra è la creazione di gallerie virtuali.
Per rendere più accattivanti i contenuti, spesso i musei si sono rivolti agli artisti, come nel caso della collaborazione di Studio Azzurro con alcuni istituti museali da cui sono nati dei progetti multimediali e multisensoriali dal forte impatto immersivo, come l’ambiente sensibile Da vicino nessuno è normale del 2012 all’ex-ospedale psichiatrico di Santa Maria della Pietà a Roma dove si trova il Museo Laboratorio della Mente, parte del ciclo Portatori di storie; o le Finestre viscontee al Castello di Belgioioso del 2015.
Nel 1991 il media-artista Jeffrey Shaw ha realizzato Virtual Museum: da una postazione collocata fisicamente nella stanza di un museo reale, attraverso il dispositivo si vedeva l’architettura della stanza del museo replicata all’infinito e in tutte le direzioni ma non i limiti imposti dalla fisica, quasi un paradosso alla Escher.

Sulla questione del posto dell’uomo nell’ambiente virtuale, è interessante la posizione di Frank Popper il quale, in Art of the Electronic Age (1993), ha affermato che gli artisti virtuali hanno “umanizzato” la tecnologia attraverso opere d’arte che attivano lo spettatore e rispondono a umani bisogni primari. Tra questi la condivisione di emozioni, pensieri, che vengono immediatamente postati o instagrammati come nel caso di Ai Wei Wei, l’artista che da anni fa parlare di sé per la sua posizione di rottura col governo cinese.
I media offerti dal web stanno condizionando sempre più i linguaggi e sempre più spesso gli artisti «non pensano alla produzione di mostre ma all’opera singola, che va bene sia per Instagram sia per la fiera.» (Luca Beatrice,“Da che arte stai? Dieci lezioni sul contemporaneo”, Rizzoli, 2021).
Quando un nuovo medium si affaccia cerca delle somiglianze con quelli precedenti in modo da poter essere riconoscibile e penetrare più facilmente negli usi e nell’estetica del tempo. Così è avvenuto in passato, ad esempio, con la fotografia che in origine mimava gli esiti della pittura e così con le nuove tecnologie anche se, fortunatamente, l’estetica dei primi computer era così elementare, per via delle capienze e capacità limitate delle schede grafiche e dei processori di una volta, da aver dato agli utenti il tempo per diventare familiari col mezzo in modo consapevole senza che fosse una protesi del proprio corpo.
Il corpo, oggi, viene chiamato in causa come elemento validante la realtà del vissuto immersivo nel mondo virtuale; internet e i social media sono entrati in modo così pervasivo da mischiarsi nel profondo con l’identità stessa delle persone, basti pensare ai numerosi profili per ogni social network e alla creazione di avatar in Second Life, dove a essere duplicato non solo è il giocatore ma anche il mondo.
Del resto, come già sostenuto dall’antropologo Hans Belting, il corpo è il luogo delle immagini, il medium per eccellenza il che implica già una predisposizione della mente a estendere il proprio potere immaginifico e a giocare su più piani mediatici e a intersecarli.
L’intermedialità è una pratica diffusa nell’arte contemporanea: Jean-Luc Godard, tramite il mezzo cinematografico vi introduce il “linguaggio per immagini”, paragonandolo con la pittura e il linguaggio poetico. Richter utilizza foto amatoriali come basi per trasporle in pittura, applicando loro uno sguardo tecnico simulato su un mezzo antico, come una sorta di “readymade” dipinto. Nella celebre installazione TV-Buddha Nam June Paik ha stilizzato l’immagine intermediale in una metafora atemporale. L’intermedialità richiama immagini che noi conosciamo e che ricordiamo grazie a un altro mezzo trasmissivo, è una forma di gioco all’interno dell’interazione tra immagine e mezzo; interazione che nasconde in sé l’essere e l’apparire.
Internet è così vasto da far venire le vertigini. Tuttavia le immagini di internet sono simulacri, nonostante ci siano dei tentativi da parte di alcuni artisti come John Rafman di portarle nella realtà, e ripropongono quel circolo di similitudini che Magritte aveva raffigurato e che Foucault, riferendosi proprio al modo di procedere dell’artista belga, accusava di esser responsabile della crisi della rappresentazione del mondo. Posizione che viene condivisa da Jean Baudrillard, il quale sottolinea la discontinuità di oggi rispetto a un passato in cui le immagini erano il prodotto ed erano controllate dalle realtà sociale e religiosa del proprio tempo. Alla storia delle immagini è, infatti, collegata a filo doppio quella dei mezzi trasmissivi che è storia delle tecniche simboliche delle immagini, nonché storia delle percezioni.
Oggi, davanti alla pletora dei mezzi di produzione delle immagini, occorre ricordare Marshall McLuhan il quale fu il primo ad individuare la stretta connessione tra i media, la psiche umana e i sistemi sensoriali, il che lo portò a formulare una vera e propria estetica dei media, sintetizzata nella celebre affermazione in epigrafe, nella quale i media tecnologici non sono più strumenti neutri per veicolare un messaggio, ma per la loro natura specifica sono essi stessi ad esprimere le mutazioni del nostro modo di pensare ed agire, indipendentemente dall’uso che di loro viene fatto, finendo così per imporsi come vero ed unico contenuto del messaggio.

Una nuova visione del mondo è oggi offerta dalla Crypto Art. La Crypto Arte nasce ufficialmente il 19 gennaio 2018 e il primo a definire questo nuovo movimento artistico è Jason Bailey, Founder di Artnome. “Per crypto arte si intendono opere d’arte digitali associate a token unici e dimostrabilmente rari che esistono sulla blockchain sotto forma di NFT. Il concetto si basa sull’idea di scarsità digitale che consente di acquistare, vendere e scambiare beni digitali come se fossero beni fisici. Questo sistema funziona perché – come i bitcoin o altre cryptovalute – la crypto arte esiste in quantità limitata”.

Il vantaggio della Crypto Art, a una prima valutazione, consiste nella possibilità di entrare nel mercato dell’arte al pari degli altri media, con uguali, se non maggiori, garanzie. Gli artisti che vi aderiscono sembrano essere accomunati anche da un indirizzo ideologico, pertanto è possibile intendere la crytpo art come movimento artistico. Infatti, molti artisti si trovano schierati su versanti opposti in relazione al processo di tokenizzazione per via dell’impatto sull’ecosistema e, nello specifico, della cosiddetta carbon footprint. Infatti, i processi con cui vengono coniate e scambiate le criptovalute dipendono dalle capacità di calcolo di migliaia di computer la cui energia deriva da fonti fossili, comportando una ingente emissione di CO2.
A portare alla luce questa problematica sono stati gli artisti digitali Memo Atken e Joanie Lermercier. Quest’ultimo, dopo aver appreso che la vendita di alcuni suoi NFTs aveva provocato il consumo di 8.7 megawatt-ore di energia, in un articolo ha spiegato come gli NFTs abbiano un ruolo nella crisi climatica.
Mentre alcuni artisti dunque abbracciano le possibilità date dalla blockchain, altri si schierano contro, arrivando addirittura a fondare un sito come Cryptoart.WTF, che offre stime del consumo energetico e delle emissioni associate a un NFT, o a firmare un vero e proprio manifesto dichiarando prioritaria la tutela degli ecosistemi
La Crypto Arte coinvolge artisti esperti di tecnologia o autodidatti, tra cui, italiani, il duo Hackatao, pionieri indiscussi del movimento (era il 14 aprile 2018 quando hanno tokenizzato la loro prima opera digitale sulla piattaforma SuperRare); DotPigeon che in poche ore ha cambiato radicalmente la sua vita grazie al drop della serie “My Dark Twisted Fantasy”; Giovanni Motta che dopo due mesi di attività sul mercato NFT si è posizionato al primo posto nella classifica degli artisti più richiesti da SuperRare; Federico Clapis di Milano, 1987 e infine Fabio Giampietro, da sempre appassionato di nuove tecnologie, robotica e realtà aumentata (nel 2017 ha ricevuto The Lumen Prize, il premio mondiale per l’arte digitale), celebre per le sue vertiginose megalopoli viste dall’alto esposte anche a Palazzo Reale di Milano. Fatto di cronoca che ha conquistato i principali titoli delle maggiori riviste d’arte le vertiginose aste del Nyan Cat e dell’opera di Beeple venduta da Christie’s per 69 milioni di dollari nel 2021.
In Italia, intanto, si è svolta la prima mostra di Crypto Arte, intitolata Travel Diary, che ha visto coinvolto un collettivo di otto artisti, digitali e non, a cura di Sonia Belfiore, allestita in Decentraland, un mondo virtuale dove è possibile non soltanto osservare, ma anche acquistare NFTs , grazie al collegamento con piattaforme marketplace. La mostra ruota intorno all’idea del viaggio come momento di esplorazione di situazioni e mondi alternativi impiegando il linguaggio virtuale degli NFTs, di per sé già generatore di un mondo parallelo.

Quali saranno i nuovi medium che ci dobbiamo attendere nel prossimo futuro sarà dettato ancora una volta dalle esigenze di comunicazione: ogni ambiente, sia virtuale o fisico e reale, adotta la semantica che risponde meglio alle regole dell’economia del linguaggio. E il fatto che un importante social-network come Facebook abbia deciso di ridenominarsi Meta, lascia intendere quanto sia fondamentale, nell’ottica di una grammatica generativa delle immagini, il ruolo della parola, come primo elemento semiotico di un nuovo linguaggio, e dell’immaginario a essa collegata.